REMO ORIOLO
TRAMUTOLA
NEI MOTI
RISORGIMENTALI E
PRE – RISORGIMENTALI
PREFAZIONE
TRAMUTOLA NEI MOTI
RISORGIMENTALI E PRE RISORGIMENTALI – PRIMI SINTOMI DI RISVEGLIO
SOCIO-ECONOMICO - PATRIOTTICO.
Durante la Rivoluzione
Francese, anche da noi si ebbero i primi sintomi del risveglio, dietro la
spinta di quei fermenti di libertà e di uguaglianza che dalla Francia
divamparono nel mondo. Viva infatti era la lotta accanita che la famiglia
Favella[1]
conduceva contro il potere feudale esercitato dal Barone di Tramutola. Come è
noto Tramutola era un piccolo feudo dell’Abate del Sacro Monastero di Badia di
Cava dei Tirreni (Sa); ad esercitare tale potere, non sempre in modo onesto,
era il Vicario Abbaziale che risiedeva quasi stabilmente in Tramutola.
Nell’anno 1797 vi fu un
grave tumulto popolare contro l’Abate, e il Vicario venne addirittura
bastonato: Causa di quella sommossa fu lo ius proibendi di cuocere il
pane nei forni privati, quando quasi in tutto il Regno di Napoli si proibiva i baroni
di esercitare tale iusso sui cittadini di obbligarli a cuocere il pane ed altro
nei forni e mulini baronali.
I capi di quella sommossa
furono arrestati dai Fucilieri di Montagna mandati a Tramutola dalla Regia
Udienza di Matera.
Venne il 1799 e il Borbone
fuggì in Sicilia e nel Regno si proclamò la Repubblica, ed ecco subito i
Tramutolesi piantare l’Albero della Libertà dando così una scossa al
potere baronale. Non appena incominciò a
prendere corpo la sanguinosa reazione “Sanfedista” l’altra parte politica si
affrettò ad abbattere l’albero inscenando una processione di sera con le
statue dei Santi Protettori di Tramutola.
Alcuni Tramutolesi furono
processati per questi reati, ma la vera svolta si ebbe nel 1806, quando si
segnò l’inizio della fine della storia feudale del Regno di Napoli e delle due
Sicilie.
Con l’avvento dei francesi
nel 1806, i martiri della Repubblica Partenopea sorsero per indicare ai nuovi
il seme del nuovo ordine di tempi e di cose che finalmente segnarono la fine
del potere feudale ed anche di quello temporale dei privilegi ecclesiastici che
il numeroso clero ne beneficiava (decennio Francese).
Anche in Tramutola fu
notevole la trasformazione socio-econimica-politica e fu diviso il patrimonio
feudale ed anche quello dei suffeudi di Ferrara, Brussone-De Muria, Marino e
anche quello ecclesiastico fu diviso in tante piccole proprietà.
Per quanto riguarda la parte
politica nulla di particolare è da notare, in quanto il potere era esercitato
da quelle poche famiglie che, ad ogni cambiamento politico, sostituivano alcune
persone alla guida amministrativa con altre, appartenenti alle stesse famiglie.
Comunque la macchina
burocratica seguiva il passo dei tempi, e si diede vita al nuovo catasto detto
“Murattiano”.
La restaurazione della monarchia
borbonica avvenne senza destare reazioni degne di rilievo, ma lo spirito di
libertà che animava alcuni Tramutolesi non si è mai assopito: anche nei moti
Costituzionali e Carbonari del 1820/21 si vide la partecipazione di alcuni di
loro. Se poi vi è stata una breve stasi di fervore polito ma non in quello
economico in quanto forte è stata, nella nostra comunità la presenza della
classe artigiana, di quella mercantile, bracciale e professionistica che hanno
contribuito al benessere del paese (vedi coltivazione e commercializzazione del
lino, della canapa, dell’uva e del formaggio, lana, grano e quant’altro).
Attraverso il contatto degli
studenti che frequentavano gli studi a Salerno e a Napoli, si seguiva
l’andamento politico del Regno di Napoli e di Sicilia. Venne il 1848 ed a gran
voce si gridò per ottenere un Governo costituzionale; i Tramutolesi non furono
estranei a quel coro tanto che, alcuni di loro subirono processi e vennero
segnalati nei quaderni degli “attendisti” politici dalle autorità di polizia e
sottoposti a sorveglianza.
Poi venne il 1860 e molti di
loro parteciparono ai moti che videro il culmine del Risorgimento seguendo
Garibaldi sul Volturno dove si compì la prima parte dell’unificazione italiana,
liberando tutto il meridione dalla Monarchia dei Borbone.
Dopo questa grande impresa,
per l’unificazione italiana, come al solito niente di rilievo è accaduto a
Tramutola e, anche il brigantaggio o
reazione post-risorgimentale dei Borboni, appena ha sfiorato il nostro paese
con qualche episodio di brigantaggio o da un episodio, narrato da padre in
figlio che non trova riscontro nelle carte, cioè all’indomani dei fatti del 18
agosto del 1860, il Capo Urbano di Tramutola fu trascinato in piazza a giurare
fedeltà a Vittorio Emanuele Re d’Italia sotto pena di aver incendiata la casa.
Si cercò di dare un assetto
urbanistico più decente al paese con l’allargamento della piazza, la
ricostruzione del caseggiato distrutto dal terremoto del 1857, la risoluzione
dell’annosa questione dei mulini e la costruzione della strada che univa il
paese a quella di Brienza-Montemurro ed anche la strada che apriva il paese al
Vallo di Diano: la Tramutola – Padula. Importante fu la lotta condotta contro
il Comune di Marsico per ottenere l’allargamento dei confini dove si vide la
partecipazione di tutte quelle forze morali ed intellettuali profuse per il
raggiungimento dello scopo che alla fine risultò vittorioso.
Dal lato religioso,
Tramutola non ha mai perso la fede cattolica ancorata all’amore verso la
Vergine Santissima che un giorno del 1853 onorò Tramutola della sua presenza
con dei fatti prodigiosi che per questi fu chiamata Madonna dei Miracoli.
Note dell’autore
Prima di passare ad esporre i fatti storici risorgimentali accaduti in
Tramutola che sono oggetto di questo
nostro modesto lavoro, desideriamo ringraziare coloro i quali hanno voluto dare
un contributo di collaborazione, tra questi: La Biblioteca Comunale di
Tramutola, l’Ufficio dello Stato Civile, ed in particolare il Sig. Sindaco B.
Salera; Come pure l’ASPZ e le Biblioteche di Potenza e quella di Altamura.
Soprattutto, desideriamo far
conoscere i fatti dei Nostri Maggiori.
L’amore Patrio è naturale virtù, conoscere la
propria storia è sacro dovere di ogni cittadino.
Nel contempo si avverte che
le notizie storiche che seguiranno nei prossimi capitoli sono state
precedentemente pubblicate qua e là, ma ora sono state raccolte nella presente
con l’aggiunta di note esplicative e surrogate da documenti reperiti presso
vari archivi.
Dopo queste considerazioni,
riportiamo in primis alcune notizie storiche di Tramutola stilate da due
nostri illustri concittadini.
La prima è scritta in un
modo preciso e ricca di particolari antropologici che ne denota la
professionalità tecnica, del resto il compilatore è stato il Sig. quondam Ing.
Saverio Marrano.
Le altre notizie storiche
scritte in modo colorito sono tratte da un articolo giornalistico pubblicato
nell’anno 1948 “sul Corriere di Lucania” dal titolo: Suggestivi Paesi Lucani
– Tramutola o “Napulicchio”. La firma è del nostro concittadino Sig.
Dott. Pino Giani che vive attualmente a Roma[2].
Saverio MARRANO – Notizie
su Tramutola – Ottobre 1997 ( Si riportano solo alcuni capitoli del
manoscritto. I numeri dei titoli si riferiscono ai capitoli del manoscritto).
2.2. Tramutola nei Secoli
Tramutola è un piccolo
paese, sito a quota di circa 650 m.l.m. in una ridente conca delimitata da
monti boscati (Ponticello, Aquila, Pianelle, Armata, Fascitiello), con una
popolazione residente di 3.500 abitanti.
Anticamente e fino all’anno
1.100, il paese era ubicato in una valletta ove sorge una sorgente a carattere
intermittente detta appunto “Acqua Tramutola” (ovvero acqua che si tramuta),
compresa fra il Monticello e San Giuliano.
A partire dall’anno 1.130 il
paese si spostò ove è attualmente, nei pressi della Cappella di San Pietro (ora
distrutta) e delle attuali Chiesa Madre e Chiesa del Rosario, ove sorse la
nuova Tramutola, nei pressi della sorgente Capo d’Acqua.
Il nome Tramutola deriva, a
mio avviso, dalla intermittenza della sorgente che si tramuta, compare e
scompare a periodi variabili ed incostanti negli anni.
Il nuovo centro sorse sotto
il patrocinio degli Abati Benedettini di Cava dei Tirreni, che avevano ricevuto
in donazione il feudo di Tramutola; essi si adoperarono affinché il paese si
sviluppasse, costruirono nei pressi della Chiesa un Monastero, divenuto poi
anche sede abbaziale, bonificarono i terreni circostanti, rimboschirono le
pendici montane e promossero le culture agricole.
Fu introdotta pure la coltura
del gelso e l’allevamento dei bachi da seta. Vennero costruite altre chiese e
palazzi, molti ormai distrutti dai terremoti.
2.3. Le attività e le
risorse
L’economia tramutolese si è
basata per secoli sull’agricoltura, ed in particolare:
° colture cerealicole di
frumento, segala, orzo, avena e miglio;
° colture di lino e canapa e
successivamente lavorazione a telaio, per ricavarne tessuti;
° colture arboree di
castagni, cerri, querce e gelsi;
° allevamento di bachi da
seta, utilizzanti le foglie di gelso e vendita dei bozzoli alle filande;
° allevamento delle api, di
polli, bovini, suini ed ovini, per ricavarne carne, latte e derivati, grassi,
insaccati e lana;
° coltivazione di patate,
mais, pomodori e melanzane, introdotte dall’America verso il 1750 – 1800.
Risorse naturali, da sempre
note, sono le acque sorgive e fluenti, utilizzate per servizi potabili, irrigui
ed industriali (azionamento dei molini, magli per battere il rame e gualchiere
per la lavorazione della lana, canapa e lino). In agro di Tramutola vi è la
sorgente Capo Cavolo, che è la più grande della Basilicata, con una portata minima
di 810 lt/sec., che alimenta un acquedotto potabile per Tramutola, una centrale
idroelettrica dell’ENEL ed un esteso impianto irriguo a servizio degli agri di
Tramutola e Viaggiano.
E’ stata pure progettata una
diga, a monte della centrale ENEL; le acque invasate sono destinate alla
irrigazione e alla integrazione idrica della zona industriale di Viaggiano.
Un’altra risorsa,
strategica, di Tramutola e paesi viciniori, è costituita da giacimenti notevoli
di idrocarburi (greggio per le raffinerie e gas metano per gli usi domestici,
industriali e autotrazione). Le prime ricerche minerarie furono effettuate in
Tramutola nel 1911; sospese per anni, furono poi riprese nel 1934 dall’AGIP
Mineraria, con esito positivo e durarono fino al 1944; l’utilizzo del metano
per l’autotrazione fu provvidenziale durante la 2° guerra mondiale. Attualmente
sono in corso, in tutta l’Alta Val D’Agri, ulteriori ricerche e sfruttamenti; il
metano verrà adoperato localmente in impianti di cogenerazione e il greggio
viene addotto alla raffineria di Taranto, in attesa dell’oleodotto.
2.4. Gli antichi abitanti
I primi abitanti della zona,
nel periodo neolitico, furono gli Enotri; erano dediti all’agricoltura e caccia
e vivevano in capanne di legno coperta da terra e frasche; commerciavano con i
Fenici.
Vi erano inoltre, nelle
valli dell’Agri e del Sinni, i Corri, che seppellivano i morti distesi.
Nel secolo 8° A.C. vennero i
Greci, provenienti dall’Asia Minore e dalle isole, che si inserirono fra gli Enotri
e i Corri. In Val D’Agri i Greci giungevano risalendo il fiume con le loro
barche. I greci portarono innovazioni culturali e sociali; introdussero l’uso
delle tegole di Argilla per i tetti. La civiltà greca durò tre secoli.
I Lucani giunsero nel
territorio sul finire del 5° secolo A.C., provenienti dal Nord, dal Sannio e
dall’Irpinia.
Nel 300 A.C. vennero i
romani (ai quali invano si contrapposero i Lucani) e si insediarono a
Grumentum, che divenne presto un attivo centro urbano.
I Lucani, forti e laboriosi,
erano simili agli Svevi; curavano l’agricoltura, le arti e la guerra; erano
buoni cacciatori; il loro pasto era costituito da poco frumento e molta carne e
latte. Tenevano per sacro l’estrarre il vino dalle uve ed in grande
considerazione le fruttifere campagne e coltivavano anche l’ulivo e il fico.
Plinio loda gli indigeni tori che i lucani, appena domati aggiogavano. Armenti
e greggi, dalle frescure dei nostri monti boscati, passavano a svernare nelle
marine; questa usanza è continuata per secoli fino ai nostri giorni: i
proprietari di Moliterno portavano a Poliporo i loro bovini, a svernare. Si
commerciavano i cereali, il vino e i prodotti caseari; fiorenti erano le
industrie suinicole. Il suino era il loro principale sostentamento. Le nostre
contrade fornivano l’antica Roma di carni salate, dette succidia; si preparava
la gustosa insucia (salciccia), che prese il nome di “lucanica” ed è tuttora
molto apprezzata.
Il lino e la lana suppliva
alla seta nelle classi meno abbienti; filare e tessere era una incombenza
usuale della donna umbro – latina, morigerata e massaia.
I lucani colsero il fiore
della Magna Grecia, specie nella ceramica: i vasi lucani erano distinti per
forma, bizzarria di anse, verniciate in nero e con affollate figure in rosso
vistoso; nelle tombe se ne trovano a profusione.
Giovani e gagliardi schiere,
i Lucani si allargarono dappertutto conquistando. Signori di Petilia, si
spinsero fino a Reggio, a Locri e al canale di Sicilia. Agili e svelti li
dichiarò la storia, impazienti di freno, strenui e disciplinati in battaglia,
dai pomposi vestiti di tunica corta, dagli elmi a tre grandi piume, i
bersaglieri del tempo, dalle aste ornate di banderuole, dagli scudi di vimini
intrecciati, difesi da duri cuoi, ardenti di libertà e di amor proprio,
frugali, giusti, ospitali.
2.7. Fatti notevoli accaduti
Accenno soltanto a questi:
1)
Spostamento del centro abitato dalla zona Acqua di Tramutola a quella
attuale, nel 1301.
2)
Nel 1326 Tramutola fu invasa e saccheggiata dagli abitanti di Grumento
Nova, senza ragionevoli motivi e privata di scorte, masserizie e animali,
bovini, equini e suini. Il fatto viene ricordato come il: “Sacco di Tramutola”.
3)
Epidemia di peste nell’anno 1665, come già detto.
4)
Terremoto distruttivo avvenuto nel 1783.
5)
Miracolo della Madonna, avvenuto il 17 Maggio 1853. Poiché vi era in
atto una forte siccità, con danni notevoli alle culture, a seguito delle
preghiere dei tramutolesi, la statua della Madonna fu interessata dalla
fuoruscita di una fiammella dal petto; si ebbe inoltre una pioggia lieve, ma
persistente che salvò la situazione. La Madonna fu poi incoronata solennemente
il 17.05.1923 come Regina dei Miracoli; da allora ogni anno in tale data si
festeggia la ricorrenza, con una processione ed una festa.
6)
Terremoto del 17.12.1857, che produsse a Tramutola circa 180 vittime ed
enormi danni ai fabbricati.
7)
Proclamazione dell’Unità d’Italia il 13 agosto 1860, organizzata dal
dott. Giliberti in casa del Conte Favella.
8)
Il brigantaggio, sviluppatosi nella zona durante il decennio 1860|70.
Saverio Marrano
01.09.1948 Da “Il Corriere
della Lucania”.
Suggestivi paesi Lucani.
Tramutola – o “Napulicchio”
–
Adagiato tra lussureggianti
boschi di castagni, in posizione pittorescamente suggestiva, si stende
l’abitato di un grazioso paesetto lucano che, che per il suo ridente aspetto,
per la vivacità, la canorità la cordialità degli abitanti, è conosciuto, oltre
che col nome di Tramutola, anche con quello di “Napulicchio”, ossia Napoli in
miniatura, piccola Napoli.
Il paragone può sembrare
esagerato, se non addirittura ridicolo, a chi non avendo visitato, specie in
estate, questo ridente borgo, conosce soltanto in generale i paesi della nostra
Regione e non ha avuto agio di notare la sensibilissima, sorprendente affinità
esistente tra le tendenze, gli usi, le caratteristiche degli abitanti di
Tramutola e le corrispondenti peculiarità del popolo partenopeo.
La particolare vivacità
dell’intelletto, la giocondità del carattere, lo spiccato, caldissimo senso
dell’ospitalità, la accentuata tendenza all’armonia, alla musica, al canto, ne
sono i punti di contatto meglio riconoscibili. E quello innato senso
dell’humor, della benevole mordacità, della piacevole e amichevole satira, che
tanto distingue i Tramutolesi specie nei paesi del Circondario, non rappresenta
ancora una particolare somiglianza psico-morale con gli amabilmente chiassosi Napoletani?
Molti sono i forestieri che,
venuti qui per ragioni di lavoro, vi sono rimasti stabilendovi in permanenza la
loro dimora, proprio attratti dalla giocondità del luogo e dall’ospitale
carattere degli abitanti.
Si può dire che non vi è
giovane che non abbia poi una voce gradevolmente intonata, mentre molti sono
quelli che conoscono l’uso dei più noti strumenti musicali, senza dire dei veri
artisti dell’armonia quali l’impareggiabile, finissimo mandolinista cav.
Antonio De Marca, l’appassionato chitarrista Aurelio Ciorciari ed altri ancora.
Particolare degno di rilievo
per la sua originalità che sta ad indicare oltre che il napoletano spirito
giocondo dei tramutolesi anche la loro innata, e non meno napoletana tendenza
alla musica è rappresentato poi dalla esistenza di una banda a fiato, con
relativo maestro, veramente unica nel genere, costituita da affiatatissimi
ragazzi del luogo.
Una sera la “banda” suonava uno dei “pezzi” forti
per la strada che conduce al Convento, tra il divertito interesse di numerosi
cittadini, quando un gruppo di forestieri, di transito sulla via, si fermò per
ascoltare l’armoniosa, riuscitissima esecuzione. Finito il pezzo, i forestieri
applaudirono abbondantemente e chiesero, curiosi ai suonatori di mostrare gli
strumenti nei quali soffiavano, ma tra la indescrivibile loro meraviglia, i
musicisti dichiararono di non poter mostrare nulla in quanto non si servivano
che del fiato dei polmoni magistralmente modulato tra le labbra, dopo mesi e
mesi di esercitazioni e concerti, riuscendo così, senza l’ausilio di mezzi
metallici, a rendere alla perfezione il suono della cornetta, del clarino,
dell’oboe, dell’ocarina, del bombardino e del trombone.
Una volta la filodrammatica
locale, diretta dall’inesauribile dott. Terzella, presentò addirittura sul
palco del teatro, in una riuscita rivista, proprio un “numero” formato dalla
originalissima “banda a fiato” che riscosse prolungati applausi per le
veramente straordinarie esecuzioni musicali.
Il dialetto tramutolese poi
ha nelle inflessioni fonetiche, nelle sue vivaci espressioni, caratteristiche
molto affini al dialetto campano. In esso infatti, eccezion fatta per la “l”
indurita, in alcune parole in “d” (caratteristica questa che però va
scomparendo) non si riscontra alcunché che ne ricordi l’origine lucana ed è
davvero strana questa particolarità data la comune, anche se varia, intonazione
fonetica, tipicamente lucana, che si rileva dei dialetti dei paesi anche più
vicini.
Giunto a questo punto il
lettore che non conosceva Tramutola si sarà così reso conto che il nomignolo di
“Napulicchio” è quanto mai adatto a questo lieto paesello. Osserverà però che
pur esistendo una notevole affinità spirituale, manca anche la minima
di quelle caratteristiche naturali che fanno della bella Napoli una delle
città più affascinanti. Dov’è il Vesuvio? Dov’è il mare? Ebbene, il mare c’è,
anche qui a Tramutola, un mare silvestre, splendente, sereno, tranquillo, un
mare di prati e di verzure ove è tanto riposante, tanto dolce posare gli
sguardi e sognar.
Giuseppe
Giani
TRAMUTOLA
BREVI
CENNI STORICI[3]
Tramutola è un
comune situato nel cuore della Val D’Agri, posto a Sud dell’antico “vallo di
Marsico”, area interna della Basilicata. E’ stato ed è un paese ricco di
movimenti politici.
La sua
economia è a prevalenza artigianale, mercantile, agricola e zootecnica.
Sorge
alle falde della catena montuosa che divide la Valle del Diano dalla Valle
dell’Agri; tale catena di montagne e colline fa parte dell’Appennino
Napoletano. In seguito ad una sella non troppo elevata che facilita la
comunicazione dei due bacini, si scende nella valletta ricca di acque, da tempo
immemorabile chiamata valle Tramutola.
I monti
che circondano Tramutola conservano, tra altri antichi nomi: Farnete, Castelli,
Manca, Chianelle e Monticello.
Tra le
Chianelle e il Monticello vi sono due piccole alture denominate “Raja e Raja
Rotonda” che nascondono il paese alla valle.
Il Paese
non conserva tracce di mura merlate, porte di accesso, torri di difesa e
guardiole di corpi di guardia. Questo fatto può così essere interpretato: la
sua configurazione geografica ha sempre rappresentato una sorta di
fortificazione naturale, e per questo non si è mai ritenuto opportuno costruire
un sistema di difesa. Unica eccezione è rappresentata da resti di antiche mura
che ancora si possono vedere in località Castelli; evidentemente lì sorgeva un
castello forse di epoca pre normanna – o addirittura pelasgica- che controllava
il transito delle persone e delle merci da una valle all’altra.[4]
Il
significato etimologico del toponimo Tramutola ha generato dispute tra
dottissimi studiosi: il Racioppi, il Gatta, il Gattini, il Giustiniani,
l’Antonini, il Ramaglia, il Caputi, il Mattei-Cerasoli, il Pecci, il La Padula,
il Bonsera ed altri.
Alcuni
sostengono che il toponimo derivi dalla terra paludosa che motola a causa della
intermittenza delle acque che sgorgano nella zona detta “acquara” o “acqua Tramutola”, zona esistente
vicino all’attuale paese.
Altri
invece, congetturano che derivi da “tramite”, piccolo passaggio. Infatti quando
nei tempi antichi si sceglievano i luoghi strategici e si custodivano i passaggi
da valle a valle, dovette lì sorgere se non una cittadina, almeno una fortezza,
posta appunto a guardia della via o tratturo (da ciò deriva il nome del
promontorio detto “Castelli”.
In alcuni
atti notarili del XII secolo la zona è denominata Valle Tramutola” e che
concorda con l’ipotesi formulata dal Mattei-Cerasoli secondo il quale Tramutola
deriva da Trames, transito, tramite, piccolo passaggio.
Poco
discosto da detto luogo vi è un altro sito denominato “Casamasone”; tale
toponimo fa supporre che lì era esistente una grande casa atta a rifocillare i
viandanti, una taverna, fornita anche di stalle per il cambio dei cavalli mutaziones.
Il Caputi
ci dice che “casamasone” è metatesi di mansiones, e di tappa, di strada,
albergo, casa.
Da detto
luogo si dipartivano vari “tratturi” che portavano nella Valle dell’Agri, a
Vertina o Vestina, a Potentia, a Venosa etc.[5];
altro in direzione di Grumentum indi ad Armento, a Metaponto, Eraclea, Sibari
etc. nonché l’intersecazione delle due strade: la Popilia Aquilia e l’Erculeia[6].
Secondo
il mio modesto parere, la vera origine di Tramutola è custodita tra i resti
delle mura dell’antichissimo castello posto in cima al monte che sovrasta
l’attuale cittadina. Questo era un castello fortificato munito di torre di
guardia ed era alle dipendenze della città di Grumentum; serviva a controllare
il transito delle merci, degli animali, delle persone, ma soprattutto
costituiva una vedetta per controllare i capi tribù dei Marsi, i quali, venuti
dal lontano Sannio nella nostra valle, vi avevano fondato delle città Vertina
ed altri insediamenti. Durante gli scavi delle condotte petrolifere eseguite di
recente, sono affiorati tombe, ville e quant’altro. Si attende una
pubblicazione da parte degli organi archeologici competenti per fare luce di
quanto esposto.
Poco
distante, verso mezzogiorno, al di là della piccola sella detta “Santa
Palomba”, vi è un’altra località denominata “Acquara o Acqua Tramutola”. Questo
toponimo ha tratto in inganno alcuni studiosi che, rifacendosi alla zona paludosa,
alle acque intermittenti e al terreno che “motola”, per sovrapposizione delle
parole si è arrivato al toponimo Tra-mo-to-la. Vero è che sempre si è detto
Vallo (di) Tramutola, Acqua (di) Tramutola; la prima sotto il Castello, la
seconda che scende dal Castello e quindi dalla grande casa dove si tramutavano
e si riposavano gli uomini e le varie bestie da soma, quindi per metatesi:
Tra-mu-to-lo – Tra-mu-to-la.
La
tradizione, avvalorata da alcuni documenti già pubblicati da vari autori
(Racioppi, La Padula, Bonsera e altri), ci tramanda la storia che nella
località Acquara, esisteva un pagus di Grumentum che in epoca medievale
divenne feudo di Tramutola Vecchio. Questo insediamento era costituito da
masserie: esse servivano da ricovero e da custodia degli armenti dei contadini
addetti alla lavorazione dei campi, non certamente costituiva il paese di
Tramutola.
In una
memoria di alcuni giuristi del secolo XVIII è narrato il fatto che Tramutola
Vecchio fu disabitato a causa dell’invasione di “formigoni” e gli abitanti del
castello furono scacciati dall’invasione di numerosi “serpenti”.[7]
Il centro antico dell’attuale Tramutola conserva ancora la sua originaria
conformazione urbanistica sviluppatasi nell’arco di circa 800 anni.
Negli
ultimi decenni, l’attività edilizia si è molto sviluppata, soprattutto grazie
alle numerose rimesse monetarie degli emigranti. Tale sviluppo urbanistico si è
esteso verso l’antico “Vallo di Marsico” in direzione Nord-Ovest.
Molto
attiva e solerte è stata l’opera delle varie Amministrazioni Comunali che si
sono succedute alla guida del Paese: hanno provveduto alla sistemazione delle
strade interne, alla sistemazione della rete idrica e fognaria,
all’illuminazione pubblica, all’allestimento dei giardini e della villetta
Comunale, fiore all’occhiello di Tramutola.
Tramutola,
per la sua felice posizione geografica, rappresenta un punto di riferimento per
il turismo della Val D’Agri grazie, oltre al verde dei boschi di castagni che
la circondano, soprattutto allo sviluppo delle attività ricreative sorte in aree paesaggistiche di grande suggestione,
ricche di boschi in uno di questi si è costruito il centro sportivo polivalente
dotato di piscine con ristoranti e pizzerie. Il campo sportivo è in via di
ultimazione, servirà ad incentivare le attività sportive.
È
collegata con comode strade con i vicini scavi archeologici di Grumentum, il
lago del Pertusillo, le piste da sci del Monte di Viggiano e del Monte
Volturino.
E’ posto
a 650 m.s.m., con una popolazione stabilizzata di circa 3600 abitanti. Ha una
superficie di circa 4343 ettari.
Il suo
sviluppo demografico ha seguito l’evoluzione storica dei tempi. Nel 1277 è
tassato per 25 fuochi, (circa 150 abitanti); nel 1500 è tassato per 911 fuochi,
(oltre 5000 abitanti); ai principi del 1600 si ha pressappoco lo stesso numero;
nel 1669 per fuochi 445 diminuzione dovuta alla peste del 1656; nel 1737 è
tassato per 376 fuochi.
All’epoca
del Catasto Onciario voluto da Carlo di Borbone arriva ad una popolazione di
oltre 3200 abitanti; nei primi decenni del 1800 oltrepassa i 4000 abitanti;
dopo l’unificazione d’Italia, in conseguenza della massiccia immigrazione nelle
Americhe, si attestò a circa 3600-3900 abitanti.
La storia
di Tramutola è stata sempre legata a quella della Badia di Cava dei Tirreni, il
suo abate ha esercitato sul paese e sugli abitanti sia la giurisdizione civile,
questa fino al 1860, sia quella episcopale. Attualmente, per effetto delle
ultime riforme delle circoscrizioni diocesane, è aggregata alla Diocesi di
Potenza e Marsico.
Secondo
fonti storiche cavense, Tramutola è stata fondata dai monaci benedettini della
Badia di Cava dei Tirreni all’incirca nella metà del XII secolo.
La sua
nascita è diretta conseguenza della penetrazione dei benedettini nel meridione
d’Italia. Questi monaci, favoriti dalla politica normanna e spinti dal loro
fervore religioso, riuscirono ad impossessarsi dei monasteri di rito greco.
Il luogo
scelto per la fondazione del paese certamente era noto ai monaci benedettini
che, per andare nelle Puglie e nelle Calabrie Ioniche, transitavano per il “tratturo”
che, scendendo da Montesano e costeggiando l’antico castello, lambivano la
valletta ricca di armenti e di acque fluenti da una naturale sorgente. Lì vi
era una chiesetta amministrata da un prete, e i monaci vollero adeguarla a
luogo di ristoro per chi vi transitava: essa costituiva un punto d’incontro
anche per quelli che percorrevano la direttrice Atena-Brienza-Marsico.
A tale
scopo si attivò un monaco di nome Giovanni, forse parente di Silvestro conte di
Marsico feudatario della Contea stessa. Giovanni si fece donare la valletta,
poi detta Pantane, con l’annessa chiesetta dedicata all’Apostolo Pietro con la
giurisdizione sui pochi nativi che ivi dimoravano.[8]
Propagatosi
la notizia dell’insediamento dei benedettini nella valletta, i vassalli del
vecchio feudo di Tramutola, situato al di là del Monticello verso l’antica
città di Grumentum, vi accorsero per mettersi sotto la loro protezione. Nel
vecchio feudo, infatti, essi erano non solo angariati dai Grumentini, ma erano
altresì terrorizzati dalle orde Saracene che, una volta al soldo dei Normanni,
altra volta al soldo dei Greci, risalendo il corso dell’Agri, depredavano i
paesi della valle commettendo stupri, saccheggi e ruberie di ogni genere.
Alle
prime donazioni se ne aggiunsero altre e sopra la sorgente del fiumiciattolo di
nome Bussentino, si formò il primo nucleo abitato della nuova Tramutola; si
costruì il primo mulino e nacquero i primi agglomerati urbani denominati Casale,
Collata, Vallicella, Crocevia. Nel 1162 la nuova chiesa con annesso
Monastero era già in parte costruita, alla loro consacrazione fu invitato quel
monaco Giovanni che nel frattempo era diventato vescovo di Marsico.
Prese
così corpo il piccolo feudo della terra di Tramutola.
Sotto
l’amorevole e sapiente guida dei benedettini, il paese crebbe urbanisticamente,
prosperando nei commerci, nelle arti e nei mestieri, migliorando le colture
delle terre con giuste bonifiche, impiantando molti vigneti, gelsi per la
produzione della seta, ma soprattutto si curò la piantagione delle piante di
lino, per cui Tramutola era rinomata.
Essendo
dipendente dalla Badia di Cava dei Tirreni, Tramutola ha sempre seguito le
vicende storiche che si sono succedute nel Regno in cui l’Abbazia è stata
coinvolta.
Dopo le
donazioni dei Conti Normanni che favorirono la fondazione dell’attuale
Tramutola, seguì il periodo degli Svevi con Federico II, la benevolenza di tale
imperatore verso il Sacro Monastero Cavense contribuì notevolmente
all’espansione dei monaci cavensi nel Meridione d’Italia. L’Imperatore,
ricordando che era stato protetto dai suoi progenitori e considerando la vita
lodevole dei monaci e la loro fedeltà al Re, prese sotto la sua protezione il
Sacro Monastero e tutti i suoi casali (fra i quali Tramutola); riconfermò tutti
gli antichi privilegi, e dispensò i vassalli dai tributi o servigi dovuti al
feudatario per tutto il Regno. Tale dispensa non ebbe valore sulle tasse
universali.
Morto
Federico II, l’Italia meridionale divenne un campo di battaglia. I partigiani
di Manfredi, poi quelli di Corradino, indussero il Papa Urbano IV a chiamare in
suo soccorso Carlo D’Angiò per proclamarlo Re di Sicilia. Si ricordi infatti
che il Papa ha sempre accampato il diritto feudale sul Regno di Napoli e
dell’Italia tutta.
Gli
Angioini, cavalieri e predoni, con il consolidarsi della loro potenza si
impossessarono dei feudi di Badia di Cava e i monaci cavesi, avendo parteggiato
per i discendenti di Federico II, subirono le loro angherie.
Tramutola
non restò indenne da questi movimenti politici.
Un
documento dell’epoca, già pubblicato da altri autori, ci fa sapere che a causa
della guerra, Tramutola era quasi distrutta e deserta e quei pochi rimasti
avevano appena da vivere.
Poi
seguirono anni bui a causa della decadenza della Badia di Cava. Nonostante ciò
il suo abate riuscì a mantenere il possesso del solo feudo della Terra di
Tramutola.
Nell’arco
di 200 anni fu venduto e rivenduto, rimbalzando dai Sanseverini conti di
Marsico, ai Capace, ai Piscicelli, ai Caracciolo e via di seguito, subendo le
prepotenze e le angherie dei vari affittatori.
Il
benessere ritornò a Tramutola dopo la restaurazione avvenuta a favore del
Monastero di Badia di Cava e il suo abate fu reintegrato nel possesso di
Tramutola con il titolo di barone[9].
Il
carattere litigioso dei Tramutolesi servì a mitigare il potere oppressivo
baronale; i Tribunali di Napoli erano pieni delle suppliche e liti prodotti
contro la Corte Baronale; i documenti ci dicono che l’Università di Tramutola
pagava annualmente gli avvocati che patrocinavano i ricorsi nei Tribunali in
Napoli ed altrove. Di cosa si tratta basta leggere quanto pubblicato dal La
Padula e dal Bonsera, Oriolo e Troccoli.[10]
Nel 1500
e nel 1600, in pieno periodo rinascimentale, in Tramutola si formò una ricca borghesia
divisa in classi sociali: dei nobili, non titolati ma che vivevano da nobili;
dei popolani che erano artigiani, commercianti massari, campesi. La crescita
del loro benessere favorì l’espansione urbanistica, economica e sociale del
paese. Vi era anche la classe dei bracciali.
Non fu
insensibile ai moti popolari scoppiati a Napoli con a capo Masaniello,
scoppiati a causa dell’oppressione fiscale da parte degli Spagnoli. Infatti un
degno cittadino di Tramutola fu impiccato nella Piazza del Mercato a Napoli e
la sua testa fu mandata a Cosenza perché servisse da monito per il Conte
Sanseverino e i suoi uomini, che avevano combattuto contro gli Spagnoli.
Il De
Blasis scrive dandone testimonianza alla pag. 145: “A dì 24 di dicembre 1649
fu per ordine della Regia Giunta appiccato Andrea Marotta di Tramutola
capitanio di cavalli per nova rivoluzione di anni 26.
Io
Andrea Marotta dichiaro per disgravio della mia coscienza, avendo da rendere l’anima
a Dio benedetto, come lunedì 20 dicembre 1649 essendo tormentato dalli Signori
Giudici della Giunta, dissi che io all’arrivo dell’armata francese in Salerno
tenni ordine di don Giovanni Sanseverino conte della Saponara et di don Antonio
suo fratello di far gente a favore di detta armata, come anco che fu dato a don
Carlo Planterio, Cosmo Granito, e Scipione de Sio, Giuseppe Curiale, Domenico
Mercadante, Francesco Macchia, Dionisio Marotta, Giovanni Melentio, Bernardino
Marotta, et altri che non mi ricordo, per soccorso di detta Armata, come anco
che si fusse mandato Gio. Antonio Lo Spinoso, e fra Santo de Marano a spiare
detta Armata, e che del tutto ne stesse inteso Antonio Attolini Segretario di
detto Conte, e Carlo Caramello. Il che non è vero, ma l’hò detto per timore e
dolore dei tormenti, e li restituisco la fama e prego Dio Benedetto a
perdonarmi. Capitano Andrea Marotta, 24 decembre 1649[11].
Questo
fatto dimostra quanto è stato sempre vivo e radicato nei Tramutolesi
l’insofferenza verso l’occupazione straniera del nostro suolo italico. Anche se
nel 1600 certamente il risorgimento non era ancora incominciato.
Nello
stesso periodo 1500-1600, in Tramutola si era anche formata una numerosa classe
di ecclesiastici tra i quali vi erano una ventina di Padri Predicatori che
erano richiesti dalle parrocchie circonvicine. Per questo motivo l’Abate di
Cava, dovendo aprire un seminario diocesano, scelse Tramutola e vi fondò il
seminario che operò per circa trenta anni.
Nel 1700
Tramutola visse sotto il potere baronale ed ecclesiastico favorito
dall’acquistata fama spirituale del Monastero Cavense.
Tramutola
ha subito vari attacchi pestilenziali, il più terribile fu quello della prima
metà del 1600, che decimò la popolazione, alcuni preti si distinsero nel
soccorrere i contagiati morendo loro stessi per contagio.
Da una
relazione dell’Arciprete di Tramutola del 1736 si ricava che gli abitanti erano
3169, (1603 maschi e 1566 femmine); i preti poi 70, di cui una diecina
dimoranti in Napoli. Alla chiesa come tassa prediale veniva corrisposto da ogni
massaro 5 stoppelli per ogni misura di grano ed orzo, che risultano incirca
all’anno 50 tomoli di grano e altrettanto d’orzo, e quelli che producevano il
lino ne davano un fascio all’anno, raccogliendosi in circa 400 fasci; ogni
fascio corrispondeva al valore di un carlino.
Era quasi
un secolo che Tramutola stava tranquilla sotto l’Abate, quando nel 1732 un
avvocato, Giuseppe Avitabile di Cava, espose alla Regia Camera della Sommaria
che l’Abate defraudava il Regio Fisco per i diritti di pesi, misure,
scannaggio, Piazza, forni e mulini, perché venivano riscossi dall’Abate mentre
erano del Fisco. La Regia Corte prese informazione e si scoprì che in effetti
era il fisco creditore verso l’Abbate per circa 450 ducati esatti in più.
Nonostante questo, le lagnanze e liti continuarono e sebbene l’Abbate
avesse sempre ragione, nel 1758 si venne
ad una convenzione per cui il fornatico, la cui rendita era allora di circa
ducati 400, e il diritto dei mulini, pari a circa tomoli di grano 500, furono
ridotti a metà.
Si era
appena sopita la lite, quando un altro avvocato, Tommaso Galise, propose
addirittura l’allontanamento e la soppressione del Monastero dei monaci
benedettini, perché, diceva, i monaci presenti non erano i legittimi successori
di quelli ai quali gli antichi Sovrani di Sicilia avevano concesso beni e
privilegi. La causa fu trattata, ci fu una ennesima sentenza della Curia del
Cappellano Maggiore, confermata dal Re Ferdinando IV e l’Abate fu reintegrato
nei suoi diritti.
Conosciutasi
a Tramutola tale questione, gli scontenti si risvegliarono e capitanati da
Michele Favella[12]
rinnovarono presso la Regia Camera le proteste per i forni, mulini e diritti
baronali, sostenendo questa volta finanche la falsificazione dei privilegi e
donazioni di Silvestro e Guglielmo Conti di Marsico e di altri, su cui erano
basate le “pretenzioni” dell’Abate.
Il Re
Ferdinando IV con un suo dispaccio riconobbe la verità dei titoli, e confermò
pienamente tutti i privilegi e giurisdizioni dell’Abbate. Ma poiché nei feudi
della corona aveva già abolito tale ius prohibendi consigliò l’Abate di
abolirlo a Tramutola e si divenne ad un accordo: il Monastero propose di
rinunciare al ius prohibendi sui
forni e sui mulini a favore dell’Università in cambio di un canone annuale di
ducati 150.
Tutto
questo, approvato dal Re, si doveva pubblicare in Tramutola nel giugno del 1797
con pubblico Parlamento a cui concorrevano i capi famiglia, ma per opera di
alcuni cittadini ormai imbevuti di idee giacobine ed illuministiche (Tramutola
fu definita dall’Abbate di Cava una piccola Ginevra), si suscitò una sommossa
popolare nella quale vennero gridate villanie sotto il Palazzo della Corte. Il
Vicario abbaziale fu malmenato insieme all’Abbate stesso, don Tommaso
Capomazza, che ivi si trovava per la visita Pastorale. In breve il tumulto fu sedato
da una Compagnia di soldati di Campagna agli ordini della Regia Udienza di
Matera e per ordini Ministeriali i capi furono arrestati e puniti.
Essi
risorsero nel breve periodo della Repubblica Partenopea piantando l’Albero
della Libertà cosi aderendo al movimento rivoluzionario in Napoli e nel Regno
di Napoli, promossa da quei cosiddetti giacobini ed appoggiati dal Governo
Francese. Il breve sanguinoso epilogo di questa Repubblica è stata narrata da
vari autori: Il Pedio e particolarmente riferiti ai fatti di Basilicata e della
Val D’Agri dal Falasca.
In
seguito alla Realizzazione avvenuta nel Regno da parte dei Borboni e
successiva dominazione borbonica che durò fino all’eversione feudale, infatti,
con l’avvento dei francesi che occuparono il Regno di Napoli, costringendo il
Borbone a rifugiarsi in Sicilia, con la legge del 6 agosto 1806 fu abolita la
feudalità, l’Abbate con gesto magnanimo donò tutto all’Università e tenne solo
il titolo di Barone e la giurisdizione Episcopale.
A
Tramutola, come si è detto precedentemente, all’inizio del secolo XIX l’aspetto
politico era in pieno fermento.
I giovani
che studiavano a Salerno e a Napoli, appartenenti a quelle famiglie che avversavano il potere baronale, erano in
contatto con quelle persone che propugnavano idee liberali. Essi rientrando a
Tramutola per trascorrervi le feste natalizie, non ritornarono nelle sedi di
studio, e da protagonisti parteciparono alla piantagione dell’albero della
libertà[13]
insieme alle truppe francesi che batterono quelle borboniche, e caldeggiarono
l’istituzione del Governo Rivoluzionario (Repubblica Partenopea) con
conseguente cacciata dei borboni da Napoli che ripararono in Sicilia.
Il sogno
di libertà di questi giovani e di quei capi famiglia durò poco, meno di un
mese; infatti la reazione monarchica non tardò a farsi sentire: le orde dello
Sciarpa partirono dal Vallo di Diano, dilagarono nella Valle dell’Agri e per
prima Tramutola subì la restaurazione del Re Borbone. Ai primi di marzo fu
abbattuto l’albero della libertà, molti cittadini furono arrestati, poi più
tardi, in seguito all’indulto, uscirono liberi.
Il Prof.
Pedio ci fa conoscere i nomi di alcuni di essi: Dott. Cuntò Paolo, legale;
Nicola De Rautiis, proprietario; Don Michele Marino, Marino Valente Dottori in
utruque jure; Marotta Domenico, proprietario; Sacerdote Pascarella Francesco.
Nonostante
questi avvenimenti politici, il potere amministrativo era ben consolidato: a
detenerlo erano i membri di quelle poche famiglie che, anche se in combutta con
il potere vigente (una volta parteggiavano con i repubblicani, ed altre volte
con i moderati), cercavano di essere sempre presenti nei gangli
dell’amministrazione municipale.
Da alcuni
documenti rinvenuti in un archivio privato del 1804 si apprende che
l’affittatore del feudo della Terra di Tramutola era un De Rautiis, il
Mastrodatti della Corte Baronale era un certo Nicola Taiano, il Giudice
Portolano era Francesco Mazziotta, l’Università (il Comune) era retta dal Capo
Eletto Francesco Marino e dagli Eletti Giuseppe Luzzi e Carmine Ormando. Il
Serviente ordinario della Corte Portolana era il Sig. Pietro Antonio Rizzo. Vi
erano anche altre figure amministrative. Il Sigillo ufficiale di detta Corte
che si apponeva su tutti gli atti ufficiali era tondo recante una figura assisa
con i simboli del potere: lo scettro e il globo, rappresentante la S.S. Trinità
con la scritta Tramutola Custos.
Il
territorio di Tramutola è stato sempre molto ristretto per cui non si sono mai
sviluppate lotte contadine per la divisione delle terre demaniali, salvo la pacifica
invasione del demanio Monticello avvenuta dopo l’eversione feudale. I contadini
di Tramutola erano piccoli proprietari in quanto, sottoforma di colonie con
contratto enfiteutico, lavoravano i terreni siti nei vari feudi che circondavano
il paese in territorio di Marsiconuovo, Marsicovetere e Saponara (poi Grumento
Nova).
In
considerazione di tutto questo, il trapasso dal regime feudale al nuovo
ordinamento sociale ed economico apportato dai Napoleonidi nel 1806 nel Regno
di Napoli non generarono aspre lotte, tutto fu accettato con moderazione. I
Tramutolesi furono impegnati solamente all’acquisizione della proprietà. Le
terre feudali ed anche quelle burgensatiche furono smembrate e i già
facoltosi proprietari accrebbero le loro
proprietà acquistando i detti territori
boscosi e sativi.
Per legge
dello stato scomparve la proprietà dei “Luoghi Pii”, furono abolite le
cappellanie con conseguente impoverimento del numero degli Ecclesiastici che a
Tramutola erano numerosi e dotti.
Scomparve
la corte baronale, gli armigeri (guardie baronali) furono sostituiti dalle
guardie municipali; le terre demaniali controllate dai guardia boschi e
campestri.
I
Reggimentari dell’Università furono sostituiti dal Sindaco e dal Consiglio
Decurionale; a capo della Provincia si nominò un Intendente.
Solo nel
1809, lo Stato delle Anime tenuto dai preti Capitolari (normalmente veniva
formato in occasione della Pasqua) che determinava approssimativamente la
popolazione del feudo o della comunità suddivisa in fuochi per indicarne la
contribuzione fiscale sotto forma di decime, fu sostituito con registri redatti
in duplice copia tenuti dai Sindaci che fungevano da Ufficiale Anagrafico e
raccoglievano nascita, le morti e i matrimoni. Così nacque lo Stato Civile e le
persone ebbero una ragione sociale ed individuale. Alcuni di questi Registri
sono consultabili presso l’Archivio Anagrafico Comunale.
In
occasione dell’abolizione del regime feudale, molte terre e palazzi feudali passarono in demanio
dei Comuni. Il territorio di Tramutola era molto ristretto e molte proprietà
terriere e immobiliari risultavano nei territori dei Comuni confinanti, per
cui, i Tramutolesi, iniziarono le cause per all’argare ed estendere
topograficamente il territorio Comunale.
Furono
abolite le promiscuità con i territori di Marsiconuovo e Marsicovetere,
mentre i terreni posti al confine con Saponara, anche se
posseduti da cittadini tramutolesi, furono accatastati nel comune di Saponara.
Lo Tramutola Vecchio fu acquistato nel 1300 da un cittadino di Saponara per cui
ritenuti da sempre territori grumentini.
Solo nel
1880 circa si pose fine a queste controversie, determinando l’attuale
configurazione topografica del territorio tramutolese.
L’economia
a Tramutola seguì anch’essa la rivoluzione dei tempi nuovi: dalle decime che si
pagavano ai vari feudi e alla corte baronale sotto forma di cera, incenso,
grano e fasci di lino, si passò al reddito individuale ed alle contribuzione
all’erario dello stato.
Il Monte
di Pietà, istituito per aiutare i giovani che frequentavano gli studi in
medicina ed in altre discipline, ma soprattutto aiutava quelle ragazze prossime
al matrimonio, fu sostituito dal Monte Frumentario, poi dall’Associazione
Operaia di Mutuo Soccorso indi dalle associazioni sindacali.
Poche famiglie
del vecchio regime sopravvissero nei tempi nuovi: i Falvella, i Rautiis, i
Marotta e i Di Pierri, i Collutiis, i Marigliani, i Natoroberto, i Denictolis,
i Tavolaro e i Fusaro, i Savone e poche altre.
Scomparirono
le cospicue famiglie dei Terzi, dei Castagna, dei Messina, dei De
Muria-Brussone, dei Ferrara, dei Panella, Cavallo, Cuntò, Marini.
Al loro
posto sorsero le famiglie emergenti: Pecci, Aulicino, Pericoli, Guarino,
Mazziotta, Troccolo, Vita, Iacovino, Marrano poi Giorgio Marrano, Greco, Ormando
ed altre.
L’economia
da agro-pastorale divenne imprenditoriale; i vecchi padroni vennero sostituiti
da conduttori di piccole industrie armentizie, boschive, artigianali.
I
falegnami ebbero botteghe, come pure i barbieri, i calzolai, i fabbri; solo i
sarti confezionavano gli abiti nelle loro case o a domicilio dei clienti.
Fiorente
era l’arte delle filatrici e tessitrici, rinomati erano gli “scardalana”
o cardatori di lino, lana e canapa.
Punto di
riferimento era la “Taverna”, una specie di emporio e forse anche di
pernottamento occasionale, dei Favella in piazza con annessa spezieria e
negozio di seta.
I
muratori erano anche richiesti nei paesi vicini.
Numerosa
era la classe dei braccianti, anche essi molto richiesti per la loro competenza
e laboriosità. Essi seguivano le transumanze degli animali verso le località
marine e lì contrattavano il lavoro per la mietitura del grano.
In questo
periodo di nuova espansione economica si costruirono veri e propri palazzi con
caratteristiche architettoniche neo classiche stilizzate: Palazzo Rautiis,
Guarino, più tardi il Palazzo Aulicino,
Terzella, Pecci in piazza e quello dei fratelli Marrano (ora Ponzio ed altri).
In epaca recente cioè nel 1900, i Palazzi Ponzio, De Marca, Giocoli ricostruiti
dai muratori Oriolo.
Dei
palazzi antichi poco o niente resta delle loro originarie forme
architettoniche. Alla Vallicella si può ammirare un loggiato con colonne e
capitelli tutto realizzato in pietra. Come pure la casa “palazziata” dei
Collutiis sita in Via Garibaldi e quello dei Luzzi ex famiglia dei Terzi. Degli
altri palazzi si possono ammirare i portali litici in pietra grigia che si
poteva ricavare alle falde del monte Monticello (ancora ci sono tracce di
questa antica cava).
Di
notevole interese sono le mensole dei balconi e delle finestre scolpite con
varie figure di donne con il seno coperto e l’altra con il seno scoperto e nel
mezzo di queste mensole vi sono scolpite teste di puttini, le mensole laterali
servivano da appoggio ai vari vasi, o con fiori o con piantine di assenso per
la cucina.
Le case
degli ecclesiastici si distinguevano dal portale di accesso, esso al posto del
capitello scorniciato, recava un capitello con incise una testa di angelo
alato; il concio del piedistallo della colonna recava scolpito un leone
stiloforo con la distinzione genitale del maschio e della femmina.
Il centro
storico di Tramutola urbanisticamente ha conservato la sua originaria
conformazione topografica sviluppatasi sin dal tardo Medio Evo. I vari
terremoti hanno sistematicamente distrutto sempre il caseggiato, ma tutto è
stato ricostruito sulle fondamenta originarie, conservando i vichi, le
quintane, gli “spuort’” (sottopassaggi). Solo dopo il terremoto del 1857
si pensò di eliminare alcune vecchie chiese pericolanti, creando al loro posto
degli spazi urbanistici. Dopo il terremoto del 1980, i nuovi amministratori
hanno continuato l’opera di abbattimento delle chiese pericolanti creando al
loro posto nuovi spazi arredati utili alla popolazione.
Alla fine
del decennio Francese seguì la restaurazione Borbonica, anche questo trapasso
non apportò movimenti rivoluzionari degni di nota.
Però
alcune famiglie Tramutolesi di antica tradizione liberale, sulla scia delle
antiche aspirazioni, si affiliarono alle società segrete e massoniche: la loro
azione contribuì a preparare la strada al RISORGIMENTO ITALIANO.
Qualche
Tramutolese fu processato per i moti carbonari accaduti nel Regno di Napoli nel
1820-21.
Per i
moti del 1848, un Tramutolese che viveva a Potenza, perché segretario del
circolo Costituzionale Lucano fu processato e nel 1852 fu indultato e confinato
a Torre del Greco, egli era L’Avv. Vincenzo Lombardi, fratello di quel famoso
Andrea Lombardi archeologo e studioso di economia che a Potenza rivestiva la
carica di Intendente di Basilicata. Più appresso, per A. Lombardi, illustre
figlio di Tramutola, si dedicherà un capitolo a parte.
Il prof.
Pedio, nelle sue relazioni statistiche
sulla Basilicata, illustra lo sviluppo artigianale e mercantile, che si
raggiunse a Tramutola nel primo cinquantennio del 1800.[14]
I monti
di Tramutola erano ricchi di piante di castagno e di noci. Questi legnami erano
largamente impiegati nelle costruzioni e nella fabbricazione di varie
suppellettili per la casa. Ciò facilitò l’esportazione verso quei paesi che ne
erano sprovvisti.
I fabbri
a Tramutola erano atti soprattutto a confezionare gli ordigni necessari
all’agricoltura e quelli per uso domestici e si commerciava nella provincia.
Delle
manifatture particolari il Pedio recita: “Anche a Tramutola, nella Valle
dell’Agri, si manifattura del Rame, che si immette da Vietri detto di
Salerno, in vasellame da cucina e per altro… e si commerciano nella Provincia”.
Dallo
Stesso Studioso: “… mentre a Tramutola il lino detto rustico costa carlini 3
il rotolo, il molle e gentile da grana 45. …il lino grezzo importato dal Vallo
di Diano, al prezzo di 3 carlini la libbra, dai paesi di Terra di Lavoro, al
prezzo di 13 grana, da Tramutola, Sarconi e Viaggiano al prezzo di 9-13 grana,
mentre da Moliterno si importa il lino vernotico detto rustico al prezzo di 10
grana la libbra.
“…a
Tramutola, dove la produzione di tele di lino oltrepassa di molto ciocchè
necessario al consumo e si commerciano da rivendugli nell’intera Provincia,
…una canna di tela di palmi tre di larghezza delle migliori si vende a carlini
6 e fassene uso la classe de’ possidenti per biancheria da letto e da persona,
mentre le tele delle quali fanno uso gli operai di Città e di campagna per gli
stessi oggetti sogliono essere da grana 30 a 33”[15].
Si
producevano anche delle ottime tele mistolino ottenute dalla canapa e dal
cotone con una larghezza di palmi due e
mezzo. In Tramutola si produceva canapa fin dal secolo XVIII ed insieme a
Marsicovetere, era tra i maggiori paesi esportatori di tale prodotto.
Per quanto
riguarda la lana, dal Pedio apprendiamo che: “Nell’Alta Valle dell’Agri, a
Tramutola la lana gentile di produzione locale si suol vendere da 5 a 6 carlini
per rotolo”[16].
A
Tramutola vi era una sola “gualchiera” e quando non era capace di preparare
tutti i panni che si fabbricavano nel paese, si faceva uso delle gualchiere di
Padula, Viaggiano e Marsiconuovo.
Vi era
anche una tintoria che usava tingere in vari colori resistenti al lavaggio del lascivio
di cenere o all’acqua di albume.
Le
antiche concerie dove si lavorava dell’ottimo cuoio sono scomparse. Ma oggi è
possibile ripercorrere le tracce di questa antica tradizione nella
toponomastica.
Come pure
è scomparso l’antico scambiatore dell’acqua che fluiva dal lavatoio e che
veniva utilizzato dalla Corte Baronale che, con l’esazione di decime,
permetteva di irrigare i giardini delle Pantane e dava forza al funzionamento
dei vari ordigni dei mulini di San
Carlo.
Per
quanto riguarda la panificazione, vi erano due o tre forni pubblici: uno alla
piazza e uno sopra la piazza regolati da precise autorizzazioni comunali.
Inoltre molte famiglie tenevano in casa dei forni privati dove cuocevano il
pane, le pizze e i vari dolciumi preparati durante le festività.
Nel 1853
Tramutola fu oggetto di un fatto portentoso perché una antica statua della
Madonna del Rosario, portata in processione, indietreggiò in più punti del
paese; successivamente, in Chiesa, si vide una fulgida fiammella girare sul suo
volto e quello del Bambino e subito dopo scese dal cielo una pioggia così dolce
a ristorare i campi insecchiti dalla siccità. Per questo motivo tale statua fu
appellata Madonna dei Miracoli[17].
Nel 1857
Tramutola subì molti danni a causa del terribile terremoto che sconvolse
l’intera Valle dell’Agri. Dalle delibere Decurionali si apprende che pure la
casa comunale fu molto danneggiata tanto da indurre lo stesso consiglio
comunale a riunirsi in una baracca di legno. Gli aiuti governativi furono
tardivi e questo contribuì a far crescere il malumore verso la monarchia
borbonica. Alcuni cittadini facoltosi intrattenevano corrispondenza con i
circoli rivoluzionari della provincia e con quelli di Salerno e di Napoli.
La
Cecilia, un cospiratore di Napoli membro del Comitato d’Azione, era
venuto alcune volte in Tramutola ospite dei Giorgio Marrano e certamente si era
incontrato con altri liberali di Tramutola di area moderata: i Favella, i
Guarino, ed altri. Essi erano spiati dal Capo Urbano di Tramutola. Costui si
serviva di suo figlio, studente a Salerno, per spiare i figli delle famiglie
liberali che studiavano a Salerno e Napoli.
Nonostante
questa sorveglianza poliziesca, il giorno 13 agosto 1860, Boldoni, Giacinto
Albini, Mignogna, e che rappresentavano le varie dottrine a cui si ispiravano i
rivoluzionari, venendo da Napoli si fermarono a Tramutola.
Presero
accordo con il sottocomitato rivoluzionario che aveva sede in Tramutola,
stabilendo di convergere con una colonna armata alla volta di Corleto Perticara
il 15 dello stesso mese. Corleto era stato eletto come punto di riferimento per
tutte le colonne armate della provincia.
Nel paese
si sparse la notizia dei successi garibaldini in Sicilia e dell’imminente
sbarco degli stessi in Calabria. Il popolo si adunò in piazza al grido di viva
Garibaldi e Vittorio Emanuele Re d’Italia e non appena i tre cospiratori furono
partiti alla volta di Corleto, la mattina del 14 agosto, i Giorgio Marrano, i
Guarino, i Favella ed altri esposero sul balcone la gloriosa ed antica bandiera
tricolore recante nel bianco una figura di donna con in mano uno scudo,
custodita gelosamente dai Guarino. Con tale gesto fu proclamata la caduta del
Governo Borbonico dando inizio all’insurrezione lucana che culminò il 18 agosto
a Potenza.
L’indomani
alcuni uomini della Valle, arrivati in Corleto, riferirono l’accaduto; si vide
il Boldoni inveire contro i tramutolesi ritenendo tale gesto patriottico
insensato e intempestivo, controproducente alla causa insurrezionale; ma gli
avvenimenti incalzavano e con l’arrivo della colonna armata dei Tramutolesi
capitanata dai fratelli Giorgio Marrano tutto fu appianato e chiarito.
Questo
fatto di rilevanza storica è stato sempre taciuto dai maggiori studiosi
dell’insurrezione lucana, come pure non è stato dato rilievo storico al Giorgio
Marrano che si distinse nella lotta al brigantaggio, militando nella Cavalleria
del Mennunni, nella zona del Melfese, fino a che il prof. Pedio ha messo in
luce il valore dell’apporto dei tramutolesi alla guerra d’indipendenza dai
Borboni.
Conclusasi
la fase storica del Risorgimento, a Tramutola non sono accaduti fatti notevoli
di rilievo storico, tranne le cose di normale amministrazione per l’assetto dei vari uffici amministrativi.
Bisogna anche citare l’alacrità degli amministratori di allora per l’impegno
profuso nella realizzazione di varie opere pubbliche nel nostro paese,
specialmente per quanto riguarda la viabilità provinciale. Infatti il consiglio
Decurionale dell’epoca, riuscì, con i nuovi ordinamenti, a far abbattere
l’antica chiesa di S. Sofia o del Purgatorio sita nella piazza, perché danneggiata
dal terremoto del 1857. Si risolse così il contenzioso con l’Abate di
Cava, che ancora rivestiva la carica di
vescovo diocesano, e che non voleva l’abbattimento di detta chiesa ma il suo
restauro.
Altra
decisione di particolare rilievo fu la distruzione della chiesa di S.
Rocco: per non ostacolare la costruzione
della strada che conduce al Vallo di Diano, l’amministrazione non si curò più
di tanto nell’ordinare la demolizione della Chiesa di San Rocco ubicata alle Cesine di sopra. Fu una reazione dei
liberali o dei Massoni? Non disponendo di documenti relativo a questo episodio,
possiamo congetturare che la buona fede
spinse i nostri avi a sostenere la
realizzazione di opere necessarie alla comunità, piuttosto che reagire contro
il vecchio barone di Tramutola, fosse pure l’Abate della Badia di Cava dei
Tirreni.
Come si
discorrerà nei capitoli successivi, il Comune si industriò a creare quelle
condizioni del vivere civile, provvedendo alla nettezza delle strade e alla
riparazione dei danni del terremoto del 1857. Si cercò di dotare il comune di
quei servizi ordinari come il regolamento dei vigili urbani, campestri e via
discorrendo fino alla creazione di impianti per l’erogazione della corrente elettrica, al telegrafo e poi al
telefono ed a fornire il paese di un acquedotto di acqua potabile, se pure
parziale, per i bisogni quotidiani della vita.
Poiché,
si è sempre asserito che a Tramutola si rinveniva del bitume lungo il corso del
Caolo, ci si adoperò per far fare delle ricerche dal Ministero Nazionale,
affinché si rinvenissero giacimenti di petrolio, infatti vi sono stati dei
pozzi per l’estrazione del petrolio che poi a causa della guerra o per altri
motivi, furono smantellati. A tal riguardo altri autori hanno scritto su questo
argomento e penso che altri lo faranno con maggiore completezza di argomenti.
Le due
Guerre Mondiali, il Regime Fascista, l’avvento della Repubblica, questi
accadimenti storici politici ancora sono vivi nei nostri ricordi ma che esulano
da questo lavoro.
Per
quanto riguarda la presenza dell’AGIP mineraria a Tramutola, ci pregiamo
riproporre un bell’articolo del nostro concittadino Pino Giani pubblicato il 26
marzo del 1950 nella pagina del corriere della Basilicata inserita nel
quotidiano “il Mattino”, in occasione della visita dell’On. De Gasperi in Val
D’Agri.
“Tramutola,
25
Ella è
stata nelle nostre terre, Eccellenza De Gasperi, e noi La ringraziamo di cuore
e le protestiamo la più sincera gratitudine. La Sua venuta tra noi rappresenta
una dimostrazione e una promessa: una dimostrazione che il Governo è animato
dalla migliore volontà per il riscatto e la rinascita della nostra regione; una
promessa che tale buona volontà sarà sostenuta anche e soprattutto
nell’avvenire e sarà integrata – così come comincia ad esserlo oggi – da
concrete feconde opere valorizzatrici.
Nella
prima parte del Suo viaggio in Lucania Ella, Eccellenza, ha sostato – e non
brevemente – in Val D’Agri per la cerimonia inaugurale di quelle opere di
irrigazione e trasformazione fondiaria che faranno dell’avara terra bagnata dal
Caolo e dall’Agri una plaga ubertosa e ferace. Al Suo arrivo nella contrada
“Raspollo” il sorriso delle belle fanciulle Tramutolesi che nel pittoresco e
antico costume Lucano Le si son fatte incontro per darLe, in un linguaggio semplice
e per tanto espressivo, il saluto del nostro popolo, Le hanno detto,
Eccellenza, quanto gradita sia stata la Sua visita fra le genti di Val D’Agri.
E Lei l’ha compreso, on. De Gasperi, Lei lo ha compreso e l’ha apprezzato. Ha
voluto farsi ritrarre insieme a loro e di buon grado ha ricevuto l’omaggio
floreale e la simbolica offerta di un fascio di spighe e di una zolla
imbevuta del nostro petrolio. Negli occhi luminosi di quelle bimbe, Ella,
Eccellenza, ha letto tutto ciò che il nostro popolo voleva dirLe: la sua
volontà di rinascita; il suo anelito verso il progresso e la civiltà, la
speranza, la fiducia, la fede che ha in Lei non lo dimenticherà: non potrà
dimenticarlo. Quando poi, tra un caloroso, unanime applauso, è salito sulla
tribuna ed ha fatto seguire la Sua parola a quella dell’Ing. Ramadoro che aveva
esposto i benefici che dalla bonifica avrebbe ricavato la Val D’Agri, Ella ha
posato lungamente lo sguardo sulla teoria dei grandi cartelli che un gruppo di
operai di Tramutola reggeva con silenziosa compostezza e vi ha scorto ancora,
con una sensibilità che La onora, il vero carattere del sano lavoratore lucano,
le sue giuste esigenze, le sue pene, i suoi propositi. “Non chiediamo
l’impossibile” diceva uno dei cartelli e Lei ne ha fatto quasi materia del Suo
discorso, compiacendosi con la nostra gente che non ha assurde pretese da
avanzare e che, pur conscia dei suoi diritti come lo è sempre stata dei suoi
doveri, rifugge dal linguaggio violento, tracotante ma fa sentire la sua voce
compostamente, dignitosamente, semplicemente. Lo aver sentito chiedere
miglioramenti stradali, la ferrovia in Val d’Agri Le è sembrato giusto
perché il problema dei trasporti e delle comunicazioni è quanto mai sentito ed
urgente. La lunga, tortuosa via che dallo scalo di Montesano porta a Tramutola
non è sempre suggestivamente ombreggiata dal verde dei frondosi castagni come
l’ha trovata Lei ora. D’inverno, essa presenta tutt’altro aspetto, quando le
braccia scheletriti degli alberi sembrano chiedere al Cielo, per settimane e
settimane, che si disciolga perché venga ripreso il traffico che ha quasi
soffocato la vita!
Lei
certo avrà pensato, anche, Eccellenza, che buona parte di quella gente sui
quali campeggiavano i cartelli con le scritte: “Valorizzate il cantiere
petrolifero di Tramutola”, “Non Abbandonate i nostri pozzi di petrolio”,
“Il petrolio c’è”[18]
non ha per tutto l’anno il comune privilegio di lavorare serenamente, ma che
attraversa lunghi periodi di miseria col focolare spento e il desco spoglio. Ed
ora che dirle di più, on. De Gasperi? Le diremo qui quello che già Le dicemmo,
pieni di fiducia, quando dopo la cerimonia inaugurale della bonifica in Val
D’Agri, Lei si fermò alla Centrale Idroelettrica di Tramutola: “Si ricordi
noi”.
G.
Giani
CAPITOLO I°
FELICE VIGGIANI
MILITARE REALISTA
CAPO MASSA
UN UOMO
Come abbiamo
escorso gli avvenimenti politici che hanno visto coinvolti alcuni cittadini di
Tramutola. Fra questi, vogliamo parlare in modo particolare di un personaggio
di difficile collocazione negli avvenimenti Risorgimentali ma che dalla sua
storia si potrà carpire il clima di quegli anni bui e intrisi di giacobismo, di
delatori e di volta gabbana. Egli era Felice Viaggiano.
Qualcuno
potrebbe sorridere di fronte al fatto di voler coinvolgere ed esaltare, un uomo
come tanti, da prima calzolaio e poi inquadrato nelle milizie borboniche dei
Fucilieri di Montagna di stanza a Matera. Ebbene non sorridete! Secondo il nostro modesto parere, la sua tragica storia
serve ad aprire uno sprazzo di luce nel panorama storico sociale della
Basilicata durante la rivoluzione francese e l’invasione degli stessi che
scesero dalle Alpi in Italia da predatori[19];
la nostra regione venne coinvolta nei grandi avvenimenti storici che si
affacciavano sul grande scenario mondiale. Alcuni storici hanno menzionato
questo personaggio.
Egli a
modo suo impersonava la legge dal quale si era tenuto ligio al dovere. Non a
caso perseguiva quelle persone che trasgredivano, con vari reati comuni, e
reati prettamente politici, l’ordinamento a cui aveva giurato fedeltà.
Per lui
l’invasione dello straniero nella vita politica della Patria, impersonata dallo
stato borbonico del Regno delle due Sicilie, rappresentava una trasgressione
alla legge.
Per
questa sua indole, comprese l’inarrestabile cambiamento politico dovuto
all’invasione francese del 1806, e pensò di produrre un’istanza al fine di
essere riarruolato militarmente nell’ordine delle nuove cose. Del resto lo
stesso dramma è avvenuto in Italia alla fine della seconda guerra mondiale; le
forze dell’ordine prima avevano giurato fedeltà al Re d’Italia quindi alla
Monarchia Sabauda e poi per i capovolgimenti politici e militari, giurarono al
nuovo ordine Repubblicano. Con questo non desideriamo scrivere la Storia
d’Italia sia perché esula da questo lavoro, sia perchè non abbiamo né la
capacità intellettuale e tantomeno la capacità professionale.
Ma
vediamo chi era Felice Viaggiano, l’uomo il Militare Realista, Capo Massa. La
storia di quest’uomo è strettamente legata all’avvento delle Armi francesi nel
Regno di Napoli. Il Re Borbone ormai si era ritirato in Sicilia protetto dalle
navi inglesi e a Napoli si era dichiarata la Repubblica Partenopea. Il Governo
era composto da uomini seri e appassionati, tra cui spiccava il famoso giurista
Mario Pagano di Brienza. Costoro erano dei sognatori: credevano in uno Stato di
uguaglianza sociale capace di abbattere gli antichi privilegi feudali che il
“Re Tiranno” ancora manteneva nel Regno di Napoli.[20]
Purtroppo
questa esperienza si concluse tragicamente e sanguinosamente specialmente nella
nostra Basilicata.
In
Tramutola il sogno repubblicano durò appena un mese, in quanto i ben pensanti
tramutolesi recisero l’albero della libertà non appena ebbero sentore
dell’arrivo in Val d’Agri delle bande Sanfediste del Cardinale Ruffo di
Calabria, capitanate dallo Sciarpa.[21]
Per questi fatti solo alcuni cittadini di Tramutola subirono un processo da
parte del Visitatore del Re, e poichè i reati erano lievi, furono indultati.
Nel 1797 arrivò in Tramutola una Compagnia di Fucilieri di Montagna di stanza
in Matera per sedurre una rivolta popolare contro il potere Baronale. Come si
vedrà in appresso, il Nostro Felice Viaggiano, fu attratto dalle divise e
dall’aspetto militare di questi soldati e nel 1798 ne chiese l’arruolamento.
Felice
Viggiani(o) nasce in Torraca provincia di Salerno, verso l’anno 1771\72, figlio
di Sabato Viggiani e di Vittoria Mercadante, entrambi di Torraca, i quali verso
gli anni a cavallo del 1775\80 si trasferirono a Tramutola insieme ai figli
Francesco Antonio e lo stesso Felice.
Sabato
Viggiani Muore il 31 gennaio 1783, la moglie Vittoria muore nella casa di
Francesco Antonio Viggiani nell’anno 1811.
Feancesco
A. si sposa con Donata Bonadies di Tramutola, dando inizio ad una famiglia di
"Fundachieri" (=negozianti), abitano nella C.da del Beato
Pietro, cioè tra la Via Oberdan, Via Cavour, e quella che scende alla Piazza
costeggiando il palazzo della “Contessa”. Indi per via di matrimoni contratti
con famiglie tramutolesi, dal 1850 i discendenti dei Viggiani abiteranno a San
Matteo Via Cavour.
Nello
Stato delle Anime del 1798, redatto dall’Arciprete di quel tempo, che si
conserva nell’Archivio Parrocchiale di Tramutola, il nucleo famigliare di F. A.
Viggiani risulta così composto: Francesco Antonio Viggiani Capo Famiglia di
anni 35,[22]
Donata Bonadies moglie di anni 26, Sabato figlio di anni 8, Domenica figlia di
anni 7, Mastro Marco Antonio Bonadies vedovo di anni 57, Maddalena sua figlia
di anni 24.
Felice
Viggiani si sposa a Corleto (Perticara)
con Maria Teresa Giorgio, e conserva la residenza ufficiale a Tramutola fino al
1803.
Nel libro
dello Stato delle Anime (A.P.T.) del 1798 il suo nucleo famigliare risulta così
composto: Felice Viggiani capo famiglia di anni 28, Maria Teresa Giorgio moglie
di anni 27, Sabato (Antonio) figlio di anni 1, Vittoria Mercadante madre vedova
di anni 61.
La
storiografia ufficiale dice che era nato a Tramutola di professione calzolaio.
Nel 1798 si arruola nei Fucilieri di Montagna ed abbraccia la carriera
militare.
Esercitando
anche a Corleto questo mestiere di calzolaio, conobbe Maria Teresa che poi
divenne sua moglie. Per la sua indole di giovane serio, ligio al lavoro ed
attaccato alla famiglia si sentiva stretto nella condizione di calzolaio che
però, gli permetteva di avvicinare molte persone di tutte le condizioni
sociali; da ciò gli venne l’idea di arruolarsi tra i Fucilieri di Montagna, che
spesso venivano mandati dalla Regia Udienza Provinciale in Tramutola per sedare
i tumulti contro la Corte Baronale fomentati da quelle persone imbevute di idee
liberali e giacobine.
Quindi
nel 1798 venne arruolato in detto corpo e, nell’anno successivo si distinse nella
lotta repressiva dei moti repubblicani. Per il suo valore venne inviato, con
una partita di 45 Fucilieri, e destinato di stanza nelle Puglie presso
Monsignor Ludovisi.
Monsignor Ludovisi era vescovo di Policastro e
insieme al Monsignore Turisio Vescovo di Capaccio, nel 1799 diresse le truppe
Sanfediste che scorazzavano tra il Cilento e la Basilicata. A capo di queste
truppe vi era Gerardo Curcio detto Sciarpa. Queste bande raccoglievano tutti i
soldati borbonici sbandati, e a questi si unì il Viggiani. Dopo la
realizzazione borbonica con la conseguente cacciata dei francesi e
l’abbattimento dei cosiddetti alberi della libertà e il ritorno in Napoli dei
Borboni, Monsignor Ludovisi lo richiamò in Puglia presso di lui.
Per il
suo zelo ed attaccamento al dovere di soldato meritò una commendizia di
Alfiere. Trascrivo la notizia di questa Commendizia di Alfiere che dava il
diritto di essere appellato con il “Don”, segno di stima e rispetto, tratta dal
fascicolo del suo processo che si conserva presso l’Archivio di Stato di
Potenza.
“Da
Noi qui sottoscritti e rispettivamente crocesegnati Amministratori
dell’Università di questa Terra di Corleto in Basilicata si fa fede, anche per
qualmente Don Felice Viggiani, Alfiere delle Milizie Provinciali, fu destinato
al Comando di questi Miliziotti dal Tenente Colonnello Don Rocco Stoduti, nel
dì 18 agosto 1802. Lo stesso è stato, ed è uomo onesto, retto osservante delle
Leggi, è suoi doveri, che non ha tralasciato d’istruire i medesimi Miliziotti
nell’arte Militare in ogni giorno festivo, e mantenerli bene subordinati, acciò
non avessero commessi disturbi, ove il medesimo Alfiere Viggiani con sua brava
condotta ha saputo mantenere il buon’ordine e disciplina militare, cosacchè dal
medesimo alfiere, o da altri suoi individui si sia dato verun disturbo, o altra
disattenzione in questa nostra Padria. Come anche si attesta che nel mese di
ottobre dello stesso anno, vedendo questa popolazione a mal partito, a causa di
una comitiva, che infestava tutto questo
Paese, ed anche le massarie della campagna, motivo per cui non si potea
dormire la notte, dovendosi vegliare colle armi alla mano, per difendersi
ogn’uno dall’assassinio, e per la difesa del proprio individuo, mosso il detto
Alfiere da zelo, ed amore, nella del 14 ottobre con valore, e spirito, procurò
l’arresto di sette ladri della detta comitiva, che facevano de furti
qualificati tanto nel Paese, che nelle predette massarie, e di persona li
condusse nelle Regie Forze di Matera a proprie spesa, senzacchè il detto
Alfiere Viggiani avesse pretesa cos’alcuna da questa Università. Ma a solo
punto d’onore, e di zelo, che bacia la M.S. D.G. E per essere il vero Sovrano e
formata la presente sottoscritta e crocesegnata rispettivamente di nostra mano,
e roborata colle armi di questo pubblico segno roborato.”
Corleto
sotto il d’ di 26 giugno 1803
Don
Vincenzo Bonadies Sindaco
Giuseppe
Vito Magaldi Capo Eletto
Segno
di Croce di Vito Filippo Ruggiero Eletto
Filippo
Massaro Eletto
Vincenzo
Cortesano Eletto
Zito
P. Cancelliere
Che il
Presente certificato sia stato sottoscritto e crocesegnato rispettivamente di
propria mano dai sopradetti Signori Amministratori della Università suddetta di
Corleto, è roborato anche col solito suggello della medesima e per essere i
medesimi tali quali si sono ascritti attesto io Regio Notare Rocco di Pietro di
Corleto medesimo in Basilicata ed in fede, richiesto ho segnato.
Venne il
1806, le Armi Francesi ritornarono vittoriose ad invadere il Regno di Napoli e
delle Sicilie. Tutte le conquiste sociali acquisite in Francia e sempre anelate
in Italia e specialmente nel Regno dei Borboni di Napoli, furono trasferite e
sperimentate nel Regno stesso ed anche in quasi tutta l’Italia; gli antichi
giacobini ora definiti “Galantuomini” risorsero a vendicare i torti subiti
dalla realizzazione condotta dal Cardinale Ruffo nel 1799.
Bisogna
dire che questa seconda invasione da parte dei Francesi, portò ad una nuova
corona reale alla Francia in vece del “berretto repubblicano”; a noi non diede
libertà e indipendenza forse anche a causa dei ceti benestanti che ora
servivano i Borboni e ora, per convenienza, servivano i Francesi.
Però
molte furono le riforme apportate nella Pubblica Ammnistrazione che segnò il
principio della democrazia e della moderna civiltà.
Come
sopradetto, Felice Viggiani capì che molte cose stavano cambiando. Per l’indole
soldatesca, nel mese di marzo del 1806, scrisse una lettera di supplica al Re
Giuseppe Napoleone spedita per mezzo dell’Agente del Duca di Corleto Riario in
Napoli per essere arruolato nel nuovo esercito[23].
Ma la richiesta non venne accolta, poiché i vecchi militari del passato Governo
era mal visti.
Il Nostro
aveva a carico in famiglia due figli ed il terzo stava per nascere e sua madre
vedova, l’orgoglio gli impediva di ritornare ad esercitare l’antico mestiere
del calzolaio, che almeno gli avrebbe assicurato la sopravvivenza finanziaria,
ma la condizione sociale acquisita, che
lo pregiava dell’appellativo “don”, gli vietava di ritornare al mestiere. Però
doveva pur assicurare un tozzo di pane alla famiglia giacchè si definisce
povero ed onesto. Ecco perché si fece sedurre dall’idea di combattere
l’invasione straniera con la speranza di
far ritornare la Monarchia dei Borboni e così essere reintegrato nella sua
posizione di militare.
Il Prof.
Pedio nel Dizionario dei Patrioti Lucani[24]
a pag. 337 così recita “…dopo la caduta della Monarchia Borbonica organizzò
le forze antifrancesi di Corleto e dei paesi limitrofi e promosse
l’insurrezione antifrancese a Corleto nel luglio del 1806: attaccato dal
Maggiore Casella, rioccupò Corleto il 27 luglio e mantenne questo centro
abitato sino al 7 agosto. Inseguito, venne catturato nel bosco di Corleto il 26
agosto. Ritenuto prigioniero di guerra, usufruì dell’indulto Sovrano”.
Così la
storiografia ufficiale. Secondo quanto lui stesso attesta, venne catturato
mentre se ne stava tranquillamente in sua casa in seguito alla delazione di
quelle persone che avevano protetto i ladri e grassatori. Ora questi signori,
al servizio del nuovo Governo, si facevano chiamare galantuomini ed onesti
cittadini, perché difensori del nuovo corso politico e militare. La sua tesi
difensiva era che, in quanto forestiere a Corleto, gli venivano addebitate
colpe non sue, e quindi, il suo arresto serviva a salvare i paesani insorti.
Ma
vediamo dalla sua deposizione prodotta in sua discolpa dalla quale si cerca di
comprendere il personaggio ed il clima politico dei nostri paesi lucani in quei
tristi anni.
In
primis leggiamo le pagine delle accuse, scritte nel processo formato dopo
la sua cattura ed arresto.
Pag. n. 6 del
fascicolo:
Corleto
a dì diciassette Agosto mille ottocento sei.
Giuseppe Maria De Turris di questa terra di Corleto, dice
essere Regio Notaro, d’età sua di anni cinquantasette circa.
Interrogato
=ha congiuntamente deposto, che sin dal momento, in cui entrarono in questo
Regno le gloriose Armi francesi, tutto questo Popolo è stato sempre attaccato,
ubbidiente e fedele alle Armi suddette, che legittimamente lo conquistarono, ed
all’attuale augusto Governo del Giustissimo e clementissimo Re di Napoli, e
della Sicilia Giuseppe Napoleone Bonaparte; perlocchè si è sempre in questa Sua
Patria mantenuta la tranquillità e il buon ordine. Questa felicità, e buon
sistema si perderono dal giorno quindici del prossimo cadente luglio corrente
anno suddetto, perché nella sera del menzionato giorno con iscandolo de’
Cittadini onesti si vidde da ogn’uno, e da esso Testimonio, Felice Viaggiano di
Tramutola qui da molti anni riparato, commorante di professione Scarparo, ed
indi Alfiere delle Milizie Provinciali del debellato passato Governo dell’ex Re
Ferdinando Borbone, a scanso che egli meritò, perché nell’anno mille settecento
novantanove si distinse nel brigantaggio di allora, si vide come si è detto
munito di montura di Alfiere ed insignito di coccarda rossa, insegna
rivoluzionaria e del passato governo. Così insignito il Viaggiano cominciò a
porre questa Patria in rivolta, animando ognuno a coccardarsi, ed a prendere le
armi, asserendo, che erano piombate nello Spinoso l’armata del detto ex Re
Borbone, cui come antico Padrone, dovea ognuno essere attaccato, e doveva
difendere la di lui causa. Queste sediziose voci, che niuna impressione far
dovevano negli animi degli uomini onesti, ed attaccati al presente giustissimo
Governo furono bastevoli a trascinare, e sedurre i cuori delle persone
ignoranti; come infatti furono da lui sedotti e traviati vari Paesani di esso
Testimonio, tra i quali si contano Prospero di Francesco Antonio Bonadies,
Antonio di Prospero Bonadies, Giuseppe Domenico di Prospero Bonadies, Antonio e
Prospero fratelli di Bonadies figli di Nicola, Pasquale Bonadies, Paolo
Buonadies Lorenzo Giorgio, Mastro Carlo Carbone, Mastro Andrea Rago, Nicola
Scavulli di Pietro, Francesco di Gennaro Montano, Francesco Paolo Sarconi,
Nicol’Antonio Galotti, Giuseppe Eggidio Giorgio, Mastro Carlo Carbone, Mastro
Carlo Ruggiero, Mastro Domenico Ruggiero, Mastro Marco Ruggiero col suo figlio
Nicol’Agostino, Pietro Potenza, Geronimo di Giuseppe Lombardi, Giovanni
Battista di Domenico Genovese, Antonio Libonati di Armanto qui da circa un anno
usurato (accasato) e commorante, Pasquale di Carlo Filippo, Giangiacomo
Pizzicara, Carlo Eggidio Morelli, Carlo di Andrea Calabrese, e Carlo Casolaro,
li quali tutti sedotti dal detto ex Alfiere Viggiani. Si fornirono della
coccarda rossa rivoluzionaria uno dopo l’altro, organizzata così la rivoluzione
del detto Viaggiano, costui armato, come l’intese si appartò da questa Terra
col solo nominato Mastro Andrea Rago, senza sapersi ove portato si fusse.
Questo fatto di Rivolta pose costernazione gli animi degli onesti Cittadini, li
quali perciò d’intelligenza cogli Amministratori di questa Comune, e dalla
Corte Locale risolsero implorare il soccorso del Generale Pignatelli,
Comandante questa Provincia, e del Tribunale della medesima, nell’atto che per
mancanza di forza ogni ben’intenzionato procurò di persuadere gli traviati
coccardati, e rimetterli nel partito delle Leggi, e della primiera ubbidienza.
E sul punto fu spedirsi per detta Matera il deputato Galantuomo don
Giambattista Scelzi, altro paesano di esso Testimonio, si ebbe la venturosa
notizia di trovarsi nella vicina Terra di Laurenzana la Colonna Mobile sotto il
Comando del Sig. Maggiore Casella, che nel dì venti del detto luglio con sua
lettera diretta a’ Galantuomini, Corte, ed Erario Marchesale, gli fè sentire di
carcerarsi il Capo Massa Viaggiano, e suoi seguaci assicurando loro che
che egli sarebbe qui piombato subito con una forza imponente per restituire a
questa Padria il buon ordine, e la tranquillità. Come infatti quegli
Galantuomini, ed altri onesti Cittadini incoraggiati da tale avviso prendeva le
armi per sedare l’insurgenza, e carcerare tutti li predetti individui
coccardati. Ma non potè seguire il loro arresto, perché tutti assenti da questa
Padria, perché impiegati alla scogna delle vettovaglia, e solo si carcerarono
due forestieri, cioè un tintore di cappelli di Bari, et un venditore d’impiastri,
Calabrese, che giorni prima erano qui pervenuti, perché spargevano
pubblicamente delle notizie allarmanti per far crescere la rivolta. La
carcerazione seguita de’ suddetti due individui forestieri saputasi da’
coccardati individui Paesani, li fece forse entrare in timore di essere
anch’essi nella stessa guisa carcerati, e quindi la maggior parte di essi
montata in furore si unì, e si armò tutta di schioppi nell’istesso giorno de’
venti, e specialmente Prospero di Francesc’Antonio Bonadies col di lui figli
Antonio, e Giuseppe Domenico, Antonio di Nicola Bonadies, Pasquale, e Paolo
Bonadies, Lorenzo Giorgio, Nicola Scavullo, Francesco di Gennaro Montano,
Francesco Paolo Sarconi, Nicol’Antonio Galotta, Mastro Carlo Carbone, Mastro
Domenico Ruggiero, Mastro Marco Ruggiero, e Carlo Eggidio Morelli per quanto
esso Testimonio intese, e seppe dalla gente di questa Padria, e passatosi così
armati, ed riuniti avanti il Monistero di questi Padri Minori Osservanti,
distante da questo abitato circa un tiro di schioppo, che domina questa Piazza,
principiarono tutti a tirare circa sedici colpi di schioppettate a palle,
dirigendoli contro i Galantuomini, ed onesti Cittadini, armati come sopra, per
il buon ordine, che in quel punto si trovarono in Piazza senzacchè che però alcuno
di essi fusse ferito. A queste fucilate, che spararono verso le ore ventitre
del cennato giorno venti luglio, tutti gli armati onesti Cittadini atterriti si
divisero, ed ogn’uno di essi pensò a salvarsi. E quindi gli armati individui
insorgenti vedendo fugata la forza degli onesti, non fecero più fuoco, e si
ritirarono in un luogo il più eminente vicino a questo abitato, nominato il
Calvario, senza fare altro attentato. Stando essi così ivi postati verso un’ora
di notte fortunatamente pervenne la Colonna del detto Sig. Maggiore Casella, ed
in sentire il tocco del tamburo, che lo precedeva li ammutinati, ridetti armati
individui suddetti si diedero immantinente alla fuga. Giunto qui il detto Sig.
Casella nella seguente mattina de ventuno organizzò la Compagnia della Guardia
Provinciale di questa Terra, creando in Capitano don Vincenzo Bonadies al quale
diede le disposizioni necessarie dirette al buon ordine, e tranquillità del
paese, e gli comunicò la facoltà di accordare il perdono a tutti li suddetti individui
traviati, purchè deponendo le armi, e le coccarde ritornavano al partito delle
Leggi, ed all’ubbidienza del Governo. Vari inviti quindi si fecero, e varie e
continue informazioni tanto da esso Sig. Capitano Bonadies, quanto da tutto il
ceto de’ Galantuomini, e da Preti, ma niuno de traviati si persuase sul timore,
che fusse un inganno per carcerarli, si mantennero sempre in campagna senza
commettere altro disordine. Verso le ore poi quattordici della mattina de
Venerdì sottomedesimo luglio pervenne in questa Terra una comitiva d’insorgenti
tutti armati di viggianesi, montemurresi, e montesanesi, accompagnati dai
suddetti individui insorgenti di questa Padria i quali entrando nella medesima
con i fucili impugnati sparsero il terrore a tutti i paesani e onesti
Cittadini, e pretesero di porre in contribuzione questa cittadinanza per la
chiesta somma di docati seicento, essendo essi di numero circa cento. Troppo
umilianti furono le parti dei rappresentanti di questa Università per liberare
la Padria dal fuoco, e dal sacco, che minacciavano, e finalmente a stenti si
contentarono della promessa di docati cinquanta, se li compromise farne loro
pagamento nel giorno seguente in Viaggiano, ed in mano del Capo della Massa che
si fece chiamare col Soprannome di Bartoloni. Pendente l’ammonimento della
transazione suddetta, la comitiva degli insorgenti forestieri principiò a far
fuoco contro la casa del Cittadino Don Vincenzo Di Pietro, credendo che nella
medesima forse esservi degli onesti Cittadini armati per far fuoco contro di
loro. A questo fatto accorsero li suddetti concittadini Briganti di questo
paese. Li quali col fucile alla mano impedirono, che gli insorgenti esteri
avessero continuato a perturbare la casa de suddetto Signor Di Pietro, ed ogni
altro cittadino, e si apposero a segno, che mal ottennero l’intento dopo varii
colpi di fucilate che tiravano contro i briganti forastieri, li quali
ricevutesi li suddetti ducati cento che a stento si ammonirono si contentarono
della promessa di ricevere li restanti ducati cinquanta nel seguente giorno,
come sopra si è detto ed immediatamente se partirono per la volta di Viggiano
li soli briganti forestieri, restando in questo abitato l’indicati insorgenti
Paesani, li quali senza molestare la cittadinanza si impiegarono dolo a girare
il tenimento per mantenere lontana dal medesimo l’invasione de’ briganti
forestieri, e così si mantennero sino al giorno sette del corrente agosto, in
cui li Deputati da questa Comune Eletti che furono esso Testimonio, Don
Vincenzo Scrillo, l’Arciprete don Pasquale Ruggiero, il Cantore don Domenico La
Cava, don Giuseppe Domenico Zito, e don Vincenzo Ruggiero ritornati da
Stigliano, ove si portarono a ritrovare il detto Sig. Maggiore Casella dal quale ottennero
l’assicurazione di non far molestare i traviati, la Padria, purchè li medesimi
pentiti degli eccessi commessi deponevano le armi, e si levavano le coccarde,
ritornando all’obbedienza del Governo, come essi traviati individui di sopra
espressi in tutto adempirono, menocchè li detti Giambattista di Domenico
Genovese, Antonio Libonati, Pasquale di Carlo Filippo, e Carlo Casolaro, i
quali non vollero deporre la coccarda, né le armi, e si appartarono da questo
tenimento, correndo voce di essersi uniti agli insorgenti di Viaggiano. E quindi
nell’undici di detto agosto avendo il detto Sig. Casella ricevute le armi
deposte dagli espressati Cittadini insorgenti, spedì dopo la presentazione de’
due ostaggi Sacerdote Don Giuseppe Domenico Zito, e Magnifico Geronimo
Pellegrino una salva guardia perché non fusse a questa Comune molestato da
qualunque forza armata, senza gli ordini del Comandante della Provincia
Generale di Divisione Fregeville.
Il
Notaro Giuseppe Maria De Turris ha deposto come sopra.
Dell’Osso
Pres.
Nel
processo vi sono le deposizioni di altri cittadini che depongono con giuramento
e stilate con le motivazioni dello stesso tenore di cui sopra e che si omettono
di riportare e sono: Vincenzo Bonadies; Don Luigi Leone che dice di essere
Gentiluomo di età sua d’anni cinquantacinque in circa; Don Domenic’Angelo
Cataldi dice di essere Dott. Fisico, di età sua d’anni trentacinque circa; Don
Carlo De Mascellis, dice di essere Professore di Legge, di età sua d’anni
quarantasette circa; Don Vincenzo Scrillo dice essere Dott. Di Legge, d’età sua
d’anni trentacinque circa.
Prima di
passare ad esaminare il contesto delle accuse e cercare di capire se
effettivamente il Nostro abbia avuto quella parte importante nella reazione
Borbonica, desideriamo riportare la deposizione a discarico del Viggiani.
Pag. n.
54 del fascicolo.
Matera
29 maggio 1807
Felice
Viaggiano dice di essere di Tramutola commorante in Corleto d’età sua anni
trenta, calzolaio di mestiere.
Domandato
sulla sua carcerazione e motivi della medesima ha risposto: Signore, la mia
professione era di calzolaio, e come da Tramutola mia Padria per occasione del
matrimonio che avevo contratto con Maria Teresa Giorgio mi ero fissato in
Corleto padria di detta mia moglie, così non dando in Corleto molto profitto
l’arte di calzolaio mi determinai a pigliar servizio nel corpo de’ Fucilieri di
Montagna nel quale fui aggregato negli ultimi mesi dell’anno 1798, ed a ciò mi
determinò il desio che avevo di procurarmi onoratamente un tozzo di pane per me
e per la mia famiglia coll’arte propria e col mestiere dell’armi. Sopravvennero
i troppo noti cambiamenti del 1799. Proclamatosi la Repubblica, io mi portai a
Tramutola mia Padria, ove mi ascrissi a quella Civica. Seguita la
Controrivoluzione, io me ne stiedi in casa mia per fatti miei senza intrigarmi.
Presosi Napoli dal Cardinale Ruffo stimai portarmi in Napoli per essere
riempiegato nel corpo de’ Fucilieri, al
quale fui restituito, e con una partita di quarantanove fucilieri fui spedito
presso il Magg. Sig. Ludovici nelle Puglie, ove feci il mio servizio con tanta
esattezza ed onore che meritai dal suddetto Maggior Ludovici una commendizia
tanto efficace presso la Corte di quel tempo, che ne fui fatto Alfiere nelle
Milizie provinciali. Mi ritirai dunque a casa mia a Tramutola nel 1800. Subito
che ebbi la patente di Alfiere; ma essendosi nello Stato organizzati i
Reggimenti Provinciali, fui io destinato a Comandare la prima Compagnia de’
Fucilieri del Regg. 3° Matera di residenza in Corleto. Trovandomi dunque in
Corleto a comandare questa partita fui al caso ed al dovere d’impiegare tutta
la mia autorità per distruggere una comitiva di sette ladri, i quali sotto il
capo Giuseppe Antonio La Vecchia infestavano quel Circondario, e mi riuscì di
arrestare tutti i sette, lacchè mi procurò in Corleto la indignazione de’ loro
parenti ed amici, che non sono pochi, giacchè sei di essi ladri erano naturali
di Corleto, ed il di loro capo La Vecchia fu da me arrestato in casa di Notar
Don Giuseppe Maria De Turris, ove stava nascosto e con cui era compare; e
questo Notar De Turris fin d’allora mi minacciò che sarebbe venuto il tempo di
vendicarsi di me per aver arrestato in sua casa il di lui compare.
Continuai
tale mio servizio Militare fino a che non entrarono in Regno le armi francesi,
appena entrate le quali, io mi tolsi da dosso l’uniforme che portavo, e la feci
guastare e ridurla a giacca dal sartore Mastro Sebastiano Casale di Laurenzana
commorante in Corleto. Mi restò un (tirappotto?) cinerino, de quale mi servivo
per casa non avendo maniera di farmene
un altro. Frattanto io cercai di entrare al servizio militare e ne scrissi
fortemente in Napoli all’Agente del Duca Riario, al quale acclusi mia supplica
a S.M. per ammettermi a servizio nella sua armata e nel mese di aprile di
questo anno esso cagnante mi rispose di farla pervenire alla M.S. come si potrà
rilevare dall’originale di cui riporta, che farò presentare a questo
–Tribunale. Attendendo io d’essermi fatta la supplica che avevo chiesta come il
mese di luglio tirandomi un giorno a casa osservai per le strade di Corleto due
uomini insigniti di nocca rossa al cappello, uno de’ quali conobbi essere
Nicola Antonio Galotti figlio di Notar Galotti; ed essendomi incontrato con una
donna, che non conoscevo le domandai cosa era questa novità, ella mi rispose
esser venuto dallo Spinoso Giuseppe-Eggidio Giorgio di Corleto, e aver detto
che allo Spinoso era arrivata una quantità d’insorgenti a quel notizia i
naturali di Corleto si univano coccardando alla borbonica. Io risposi a questa
donna essere ben pazzi coloro che potevano sognar di pigliar piede
l’insorgenza, e che non si fusse creduto a tali notizie all’armanti. Mi ritirai
a casa mia, ed avendo osservato per due giorni che andava crescendo di numero
de’ moccardati rossi, ed avendo udito che si attendevano gl’insurgenti di
Viaggiano pe inalberare bandiera bianca, io stimai di abbandonar Corleto, ed
andai a nascondermi nella mia Padria di Tramutola, perché in Corleto temevo de’
parenti e degli amici de’ sette ladri, che avevo carcerato, subito però che
intesi sedato il fermento di Corleto, e de’ Paesi convicini raggiunsi colà la
mia famiglia, che era ivi restata; e dopo quattordici o quindici giorni di
questo mio ritiro la mattina de’ 26 Agosto dell’anno prossimo scorso fui in
casa mia arrestato dall’Intendente di quella Legione Don Giovanni Battista
Scelzi, e tradotto in quel carcere, donde circa un mese dopo fui condotto nelle
forze di questa Città. E questa è la storia dolorosa delle mie disgrazie, alle
quali devo aggiungere che i miei nemici di Corleto cercarono di farmi morire in
quel carcere, ove mi furono tirate quattro fucilate, le quali per misericordia
di Dio non presero fuoco. E così ha deposto ed ha sottoscritto.
Io
Felice Viggiani ho deposto come sopra
Parisio
Addì
31 maggio 1807
Al
Procuratore Regio cogli Atti
De Fabritiis Pres.
Dopo
queste due toccanti deposizioni rese al Tribunale, una di accusa e l’altra di
difesa e che dalle quali si percepisce il clima del periodo storico, sarebbe
superfluo continuare il commento. Ma purtroppo il Viggiani era noto sia al
Generale Pignatelli che al Maggiore Casella, anche se non lo conoscevano di
persona; era noto a loro che egli ne era il capo e l’ispiratore delle reazioni
insorgenti antifrancesi in Corleto e nella Valle dell’Agri, anche se non vi
partecipava di persona.
Solo dopo
l’orribile eccidio di oltre cento cittadini di Viaggiano e conseguente sacco
perpetrato dalle truppe francesi non solo a Viggiano ma anche in altri paesi, a
danno soprattutto delle case più ricche, il Viggiani, comprese di aver perso la
battaglia della reazione, ed inseguito dalle truppe del Maggiore Casella si
rifugiò nella sua casa di Corleto con la segreta speranza di usufruire della
promessa di indulto fatta precedentemente dal Casella.
In
Corleto si fece arrestare e rinchiudere nelle carceri Baronali ma dopo circa un
mese proprio per la sua pericolosa condizione di Capo Massa fu trasferito nel
carcere di Matera, dove subì un attentato da parte di alcuni detenuti che egli
stesso aveva fatto carcerare. Si ridusse in uno stato pietoso tanto da indurre
la moglie e sua madre a produrre alcune suppliche al Presidente del Tribunale
di Basilicata.
Riportiamo
un brano della supplica della moglie: “…Eccellenza chi non vede la
situazione tanto del suddetto buon marito, quanto di tant’altri colà racchiusi,
non può crederlo. Il luogo è angusto, V.E. il vidde, gli infermi sono pressati
tutti, senza comodi, sdraiati al suolo, visitati per cancello in vario di serva
disperati, il fango accompagna un fedito grave, ed irrespirabile, perché il
cancello li devono tenere aperti dall’una parte, e dall’altra; insomma gli si
nega ogni refrigerio nell’atto che han bisogno di tutto. L’infelice supplicante
lontana esentarsi dalla sua Padria con (alcuno al petto?), con due figli nella
Padria lasciati a discrezione altrui, deve guardare certe volte dal Corpo di
Guardia, e certe volte per la durezza dei custodi da fuori del cancello il suo
marito che languisce d’infermità pericolosa”. (contrasse il morbo del colera).
In
seguito fu disposta una visita da parte del medico fiscale il quale dette parere
favorevole al trasferimento in un altro ambiente più salubre. Infatti gli fu
concesso il permesso vigilato di abitare presso la casa di un conoscente di
Matera, sotto la sorveglianza di due guardie. Il permesso durò poco e ritornò
in carcere nonostante le suppliche della madre e forse anche di qualche
influente cittadino di Corleto. Questo si evince da un attestato del Comune di
Corleto e da una lettera dell’Intendente di Basilicata che si riporta.
Pag. n.
34 del fascicolo
Potenza
15 Aprile 1807
L’Intendente
della Basilicata
Al Sig. Presidente del Tribunale
Straordinario della stessa, e delle due Calabrie
Sig.
Presidente
S.E.
il Ministro della Polizia Generale, nel rimettermi la memoria della Vedova
Vittoria Mercadante di Tramutola, colla quale implora la libertà di suo figlio
Felice Viaggiano detenuto, per raggiri de’ suoi nemici, parte de’ quali han
fatto da Accusatori, e parte da Testimoni, m’incarica d’informarmi sul conto di
detto individuo.
Vi
prego dunque Sig. Presidente di denotarmi al più presto possibile i carichi,
che il medesimo porta presso cotesto Tribunale Straordinario, per poterne dare
ragguaglio al prelodato Sig. Ministro.
Ho
l’onore di salutarvi con distinta stima, e considerazione.
In assenza dell’Intendente
Il Segretario Generale
Frageville
Ricapitolando
Felice Viggiani fu carcerato perché ritenuto un insorgente pericoloso, un Capo
Massa capace di trascinare gli uomini ad armarsi per combattere per un ideale:
la disubbidienza all’ordine costituito e l’invasione dello straniero[25].
Accanto a
questa figura di eroe patriottico, c’è anche la figura dell’uomo che
dignitosamente cerca di salvare la sua vita per il bene della sua famiglia.
Egli
stesso rivolse infatti numerose suppliche al Re ed agli organi competenti,
nelle quali si protestava innocente o comunque di non aver commesso tutte
quelle azioni di guerriglia imputatagli da numerosi cittadini ed anche da
rapporti delle autorità di polizia. Inoltre affermò di non conoscere lo Stoduto
del Lagonegrese, i Di Mauro di Sarconi, L’alfiere Micucci suo amico e tanti
altri che poi divennero Briganti.
Comunque
riuscì a sopravvivere a tutte queste avversità, e solo nei primi mesi del 1808
venne scarcerato usufruendo dell’indulto che il Governo Napoleonico accordò a
quelle persone che avevano ostacolato nel Regno l’avvento delle Armi Francesi.
Si deve
anche fare un’altra considerazione, egli certamente fu aiutato da molte
famiglie, allora influenti nei gangli delle varie Amministrazioni, esse erano
certamente di Tramutola ma anche di Corleto. Da come si esprimono la mamma, la
moglie e lo stesso Felice, si percepisce che non è “farina del loro sacco” in
quanto non crediamo che erano persone addottorate nelle lettere e quindi si
capisce che venivano consigliate e guidate da persone competenti e altolocate.
Queste
notizie sono state ricavate dai fascicoli che si conservano nell’Archivio di
Stato di Potenza e da pubblicazioni di Illustrissimi scrittori di storia patria
di Basilicata. In appendice a questo capitolo si pubblicano altre pagine del
suddetto fascicolo del Processo istruito a carico del Viggiani, che si conserva
nell’Archivio di Stato di Potenza.
[1] A fine di questa
Prefazione si potrà leggere l’Albero genealogico di questa cospicua famiglia di
Tramutola. L’albero genealogico mi è stato fornito dall’ultimo discendente dei Favella con il titolo di Conte: Architetto Sig. Giuseppe Favella residente a
Napoli.
[2] Si ringrazia il Sig. Geom.
Settimio Di Pierri per avercelo fornito in fotocopia.
[3] Questa relazione, ora
riveduta con l’aggiunta di note e documenti, fu consegnata al Sig. Dott.
Pantone nel 1994 per l’UNITRE di
Moliterno.
[4]
Certamente le muraglie furono visitate dal Nostro concittadino Andrea Lombardi,
ma chi per primo mise “nero su bianco”, fu il Sig. Patroni Giuseppe in “Notizie
sugli scavi di antichità “ – Aprile-Giugno 1897, il quale così scrisse: “Non
lungi da Tramutola, in contrada Castelli (un cocuzzolo dominante un profondo
burrone situato a Nord-Ovest, a cui si accede da una specie di sella),
riconobbi una cinta Pelasgica trovata dal Sig. Di Cicco, della quale diamo ora
la notizia noi per la la prima volta. E’ costruita con blocchi non molto
grossi, attualmente poco sporgenti dal suolo boscoso; il muro è largo 5 metri,
compreso il riempimento interno di pezzi minori e di ciottoli. All’interno di
questa cinta, si vedono tracce di altre mura a secco, fatte con massi molto
piccoli ed irregolari. Non si vede alcuna emergenza speciale che accenni ad
acropoli. Al di fuori della cinta è una casetta costruita con muretti a secco,
molto analoghi agli antichi, ma probabilmente fatta in tempi recenti con
materiale tolto alle mura antiche. Mantiene tutta la pianta e raggiunge un
metro di elevazione dal suolo”.
[5] A.
LOMBARDI: “La strada che da Venosa per Potenza dirigevasi a Grumento,
proseguiva il suo cammino verso Nerulum. Essa doveva correre per luoghi
montuosi, ma non privi di abitatori; ciò nonostante nell’Itinerario di Antonino
non si fa parola che della stazione detta Semuncla, alla quale i moderni
geografi hanno sostituito ad Semnun ossia ad Sirim. Non pare che la detta
strada attraversasse il Siri presso la sua sorgente, come si è opinato dal Romanelli,
poiché in questo caso non verso Nerulo direttamente, ma verso Lauria sarebbe
corsa.
Sembra anzi più possibile,
che passasse il Siri nel punto ove le acque del torrente Cogliandrino mettono
in quel fiume, o quivi dappresso, non solo perché questa è la linea naturale
del cammino che da Grumento per le campagne di Moliterno e di Latronico porta
alla odierna Rotonda, ove generalmente vien riposto Nerulo, ma anche perché a
poca distanza dall’indicato punto giace Agromonte, contrada fertile in
anticaglie e dove certamente doveva elevarsi una città di qualche importanza”.
(La Corona di Critonio – Viaggio tra Antiche città in Lucania – 1830).
[6]
Ibidem: Incontransi frequenti ruderi e rottami antichi in tutta la valle di
Marsiconuovo, nella cui estremità meridionale era situata Grumento, ma che per
la loro non indifferente distanza non potevano a quella città appartenere. Tra
gl’indicati ruderi meritano particolare menzione quelli che si scorgono presso
Marsicovetere, ove da alcuni scrittori patrii sopra deboli concetture si è
voluto riporre Vertina, e dove il chiarissimo Accademico erculanese Giacomo
Castelli si era avvisato di collocare i Campi Veteres, con maggiore probabilità
da altri situati in Vietri di Potenza, come si è detto di sopra. Sono degni di essere ricordati i rottami che si veggono
nella strada detta Serra della Chiesa presso Tramutola, ove nel 1794 numerosi
sepolcri furono disseppelliti con immensa quantità di tegoli, mattoni, armi,
bronzi, lacrimali ed altri antichi oggetti”.
[7] A dir
del Prof. Bonsera, altri non erano che le orde saracene che distrussero anche
Grumentum, e i serpenti, sempre loro che viscidamente depredavano le misere
popolazioni.
[8] LA PADULA:Tramutola Storia e attualità. Edizioni META. Matera/
ottobre 1976.
[9] Ibidem B. LAPADULA: CAP.
7°
[10] Ibidem LA PADULA. Santino
G. BONSERA, Remo ORIOLO, Giuseppe TROCCOLI – Tramutola – Note e ricerche
storiche. Padri dottrinari – Salerno – 1993.
[11] G. DE BLASIS – Le
giustizie eseguite in Napoli al tempo dei tumulti di Masaniello – Arnaldo Forni
Editori.
[12] Per
meglio sintetizzare l’importanza storica
di questa famiglia nella vita economica e sociale di Tramutola, riportiamo un
attestato di molti cittadini di Tramutola a discarico delle colpe della Corte
Baronale: “In dei nomine Amen. Oggi, che sono li undici Aprile mille settecento
sessantacinque, indizione 13° Tramutolae = Regnante F.do = e con tre lumi per
essere mezzora di notte incirca. =
Costituiti personalmente in
nostra presenza Roccantonio Orlando, Carlo Di Fuccia, Pascale De Nictolis,
Paulo Troccolo, Michelangelo Tavolaro, Carlo Tavolaro, Tomase Mazziotta,
Giovanni Orlando, Niccolò Marotta, Benedetto Troccolo, Niccolò Murena,
Francescantonio Mazziotta, Michele Orlando, Carlo Maggio, Alessandro Lanziano,
Antonio Lauria, Niccolò Farina, Donato Lavieri, e Simone Troccoli tutti di
questa suddetta Terra, li quali spontaneamente = ci hanno asserito, qualmente
don Domenico Marotta è nipote del Sig. don Michele Favella, come figlio della
fu donna Caterina Favella sorella del medesimo don Michele, il dott. Don
Ludovico Di Pierri e don Carlo Di Pierri anche sono nipoti carnali del detto
don Michele, come figli della medesima don Agnese Falvella sorella del
medesimo; il dott. Fisico Michele De Nictolis anche è nipote del medesimo sig.
Falvella, come marito della Magnifica Mariangela Di Pierri, figlia della detta
fù don Agnese. Il dott. Cerusico Francescantonio Mazziotta è fratello cugino di
detto Sig. Falvella, come figlio della fù Magnifica Anna Falvella, sorella del
Sig. Notaio Rocco Falvella padre di detto
don Michele. Il Sig. don Costanzo Marotta ordinario avvocato della Casa
di detto Sig. Falvella. Il dott. Don Costantino Guarini è congiunto, come
figlio di Partemia Di Pierri, che fù figlia di Carlo Di Pierri cugino di detto
Notare Rocco, ch’è amico stretto del detto Sig, Falvella. Il dott. Gerardo
Marino anche è stretto confidente per essere protetto dal medesimo Sig.
Falvella in tutte le sue occorrenze, ed inquisizioni. Il Rev. Don Michele
Marotta è Cappellano del Sig. Falvella per celebrare nell’altare di S. Maria
del Carmine. Don Giovanni Battista Panella fa scuola alle figlie di detto Sig,
Falvella. Don Gerardo Molinari è debitore di esso Sig. Falvella. Don Niccolò, e
Massimiano Lavieri sono affittatori della Taverna d’esso Sig. don Michele.
Isidoro Pericolo, e figlio sono esattori di detto Sig. Falvella. Niccolò Di
Pierri è debitore, ed agrimensore di detto Sig. Falvella. Domenico Coiro stà
per pratico alla Spezieria di detto Sig. Falvella, dove è Speziale il Dott.
Sig. Francescantonio Mazziotta. Don Pascale Pascariello e Giuseppe Mazzeo, e
Pietro De Nictolis sono intrincesi della Casa di detto Sig. Falvella, facendo
il detto Nictolis anche da esattore il medesimo Antonio Pericolo è socio nel
negozio delle Seti con detto Sig. Falvella. Li Magnifici del Governo vengono
regolati, e protetti dal medesimo Sig. Falvella, perché li medesimi pro-tempore
vengono eletti a tutta devozione dell’istesso Sig. Falvella per tenere lo
suggello in Casa propria, e ne dispone, come li piace, e si fa fare quelli attestati
che vuole. Mastro Paolo Jacovino è confidente e fù l’anno scorso eletto
Sindaco, e viene dal medesimo Sig. Falvella protetto. Infine il detto Sig.
Falvella è persona prepotente in questa sua Terra, e si fa fare, così
dall’Università, come da persone private tutte quelle scritture che vuole e
desidera, siccome detti Costituiti costà, e così hanno attestato, e giurato”.
[13]
Secondo i canoni Rivoluzionari dell’epoca, l’albero della libertà era
costituito da un tronco di pioppo più o meno alto. Tale pianta fu scelta perché
la sua etimologia deriva dal latino, significando “populos”. Veniva piantato
generalmente in Piazza addobbandolo con strisce tricolori: bianco, rosso e
verde. Sulla punta si poneva un berretto alla francese con una coccarda anche
essa tricolore; vi si appendevano anche delle scritte: “Tremate Tiranni,
tremate o perfidi” e altrove con la scritta francese “Libertè, Legalite,
Fraternite”. Il popolo danzava intorno con canti e suoni e si celebravano anche
dei matrimoni; inoltre si bruciavano le carte antiche di possessi feudali. La
tradizione vuole che in un paese della Calabria, ancora esiste in una piazza un
gigantesco olmo che sarebbe stato piantato nel 1799 in occasione della
Repubblica Partenopea. A Lauria l’Albero
della libertà fu al centro di diatribe tra i fautori rivoluzionari liberali e i
conservatori. Il Beato Lentini seppe placare gli animi col suggerire di
piantare una croce al posto dell’albero perché il simbolo della Croce
rappresentava un “albero di riscatto e della salute”, così riuscì a sopire gli
animi esacerbati dagli avvenimenti tumultuosi.
[14] Per tutti: T. PEDIO – La
Basilicata borbonica.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem
[17] Remo ORIOLO - La
Chiesa Madre SS. Trinità di Tramutola 1166-1995.
[18] Le parole in grassetto
sono state volontariamente evidenziate per dare maggiore rilievo a quanto
discorso nel presente lavoro.
[19]
Riportiamo una piccola frase del famoso proclama di Napoleone Bonaparte,
prodotto qualche anno prima del 1799: “Voi siete nudi e affamati… Io voglio
condurvi nelle più fertili pianure del mondo. Vi troverete gloria, onore,
ricchezza…”
[20] In
un memoriale del 1799, tratto dagli Atti Notarili del Notaio Vita (A.S.P.) si conoscono almeno i promotori
della piantagione dell’albero della libertà: Francesco Troccolo, Antonio Laviero,
Filippo Vignati, ed altri hanno fatto un attestato =In nomine Domini= Oggi li
quattro febraro mille settecento novanta nove, seconda indizione, Tramutola
=Regnante= In presenza nostra personalmente costituiti Francesco Truoccolo,
Antonio Laviero, Filippo Vignati, Saverio Cavallo, Giuseppe Cesareo, Nicola
Truoccolo, Michele Tavolato = Giuseppe Aulicino, Filippo di Roma, Pasquale
Gargano, Vito Lascaleia, Gerardo Ragone, e Tommaso Tudisco, tutti di questa
terra di Tramutola li quali con giuramento anno asserito, qualmente ieri tre
del corrente a’ contrasto ed insinuazione
del cittadino Domenico Marotta, e verso l’ore ventidue dal Cittadino
Gennaro Calvello, Saverio Cavallo, Francesco Greco si piantò l’albore della libertà
in questa Terra di Tramutola, e proprio nella pubblica Piazza con applauso e
concorso di tutto il Populo, perché prima di tale tempo, non era stato da
nessuno piantato in detta Terra, ma si aveva cognizione di tanto, e ciò lo
deponiamo come testimoni de viso al fatto sudetto, è questa è la verità=
Seguono le firme del Giudice a Contratti Pasquale Russo, Luiggi Marino, Felice
Marino Berardino Guarino.
[21]
Gerardo Curcio di Polla, noto per le sue sanguinarie doti di brigante.
[22] Negli anni successivi
risulta Tenente della Milizia Cittadina).
[23] Pagina
n. 58 del fascicolo = Napoli 5 Aprile 1806 = Gentilissimo Sig. Don Felice, Ho
ricevuto la grata Vostra de’ 19 Marzo scorso con attrasso, ed ho rinvenuto in
essa la supplica per Sua Altezza con la quale dimandate servizio ne’ Reggimenti
Nazionali, alla quale non mancherò dar corso facendole anche accompagnarci
dall’informo di una degnante Persona ma non saprei augurarmi un esito felice
dacchè l’attuale Governo non vede di buon occhio le Persone che hanno servito
il Governo passato dal 99 in poi, ed io non saprei come ciò occultare e avere
vantaggio; del resto io non mancherò di fare le parti opportune, essendomi già
da tempo dimenticato il vostro passato. E disposto sempre a servire mi
raffermo.
[24] Società di Storia Patria
per la Puglia – T. PEDIO: Dizionario dei Patrioti Lucani, Vol. V, Bari
1990.
E dello
stesso autore, Brigantaggio Meridionale, 1987, Indice dei nomi, pag.
154.
[25] La nobiltà del carattere deriva dal fatto innanzi narrato, in quando i cittadini coccardati di Corleto, senza alcun dubbio faceva parte il Viggiani, misero in fuga i rivoltosi giunti da Viggiano e dai paesi limitrofi con l’intento di mettere a ferro e fuoco le ricche famiglie di Corleto, con la pretenzione di esigere del denaro. Questo fatto è significativo per mettere a fuoco, ripeto, la onesta figura dell’uomo e del militare: Felice Viggiani.
Complimenti articoli molto interessanti
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