I RACCONTI DI UNA VOLTA REALMENTE ACCADUTI
Una sera di circa sessant’anni fa, mentre
stavamo seduti attorno al focolare, però non tutti eravamo presenti della
famiglia; ci mancava mia sorella Vincenzina che era andata a prendere un barile
di acqua al “fontanile “del Piazzile[1]
mio fratello Vittorio e Nunzio che erano usciti con i rispettivi amici
nonostante il divieto di circolare di notte a causa del corso della seconda guerra mondiale.
Nella casa eravamo solamente: il nonno
Rosario, padre di mia madre, mia sorella Giorgina, mia sorella Rosaria che per
passare il tempo si dilettava a confezionare calze di lana ed altro, io e
mamma, il fratello Guido tenendo una lucerna a petrolio con lo stoppino, era
sceso nei sottani di casa con papà per accudire la capretta di nome
“stelluccia” che tenevamo insieme al porco.
Ad un certo punto, mamma rivolto verso di me
disse: Remo, domani mattina dopo che avrò preparato la colazione per Antonio,
Vittorio e Nunzio perché vanno a lavorare da muratori, e provveduto alla sistemazione
di Tata[2]
Rosario nei suoi bisogni quotidiani, sistemato il maiale e stelluccia, dobbiamo
andare a Pedali di Marsicovetere per cercare di comprare un poco di grano buono
per mischiarlo al nostro onde poter fare il pane, le pizze e i tipi di pasta
quali i “fusilli” i “cavatelli” ed altro.
Non ricordo l’anno, il mese ed il giorno, ma
poteva essere il mese di maggio del 1942 o ‘43 che io e mamma verso le ore nove
ci incamminammo per la via che conduceva a Pedali.
La via era quella che passava sotto le Cesine
e la Cappella di S. Vito, che poi conduceva verso le Pantane dopo essere
passati davanti la massaria dei “Pataniedd’”[3]
e passati sotto l’arco del ponte dell’acquedotto che anticamente portava
l’acqua ai mulini di S. Carlo, costeggiando i muri inzuppati di acqua dove vi
si potevano trovare i granchi si voltava a sinistra e si prendeva la via della
“Croce”. Si passava per avanti il casino dei Ponzio[4]
e poi si scendeva per quella che portava alla “Vallegianna”[5]
e poi si prendeva la Provinciale (ora Nazionale) che era solo imbrecciata e non
asfaltata.
E così cammina, cammina, arrivammo a Pedali.
Il Pedale di una volta non era come oggi si presenta. Ora è una cittadina posta
nel cuore della Valle Dell’agri e si chiama Villa D’Agri. Allora cerano solo quattro”catapecchie”[6]
ed erano situate lungo la costa di Marsicovetere dove vi crescevano delle
piante di mandorle
Dove ci fermammo c’erano quelle poche casucce
e pagliai del Barone Piccininni ed erano situate sotto il Palazzo ove esisteva
la peschiera con il lavatoio di comodo alle massaie per lavare i panni. In più
vi era una piccola chiesetta di comodo a quelle persone che non potevano salire
a Marsicovetere e che il Parroco scendeva nella chiesetta per celebrare i vari
riti della religione cattolica: matrimoni, funerali, battezzi ecc.
Alla prima masseria mamma provò a chiedere ad
una donna che stava affacciata sull’uscio della porta, se poteva vendere il
grano; questa ci rispose con un diniego perché anche loro ne tenevano poco.
Andammo più avanti e là cera una vecchietta che ci disse la stessa cosa, però
volle sapere chi eravamo e da dove venivamo; mamma rispose che eravamo di
Tramutola e che appartenevamo alla famiglia di Mastro Antonio di Nunzio e
siccome eravamo una famiglia numerosa composta di dieci persone, questo grano
ci serviva per mischiarlo con il nostro così di permetterci di arrivare ad
Agosto quando dopo sarebbe stato più facile acquistare il grano nuovo.
Questa brava donna si mosse a compassione ed
andò a riferire la nostra richiesta
della compera dei venti chili di grano, al marito che era intento alla aratura
del terreno, Al ritorno ci fece entrare in una stanza con il forno dove teneva
i sacchi di grano ben nascosti, ne aprì uno e con un rudimentale arnese di
legno concavo con un manico, versò una ventina di palate nel nostro sacco che
alla pesatura con stadera poco mancava ai venti chili.
Mia madre la pagò e ringraziò con quella
gentilezza che era insito nel nel suo
carattere, si sistemò sulla testa il sacco di grano e ci avviammo per la
via del ritorno.
Però notai che pigliammo la via che conduceva
altrove[7]
e non era quella di prima. Allora mamma mi spiegò che non dovevamo ritornare
per la provinciale in quanto avremmo potuto subire un controllo da parte dei
carabinieri e certamente ci avrebbero sequestrato il grano a causa del
razionamento dovuto alla guerra in corso. Così pigliammo la carraia dei
Lagaroni che era costeggiata principalmente da siepi per cui dovevamo camminare
nel mezzo onde evitare di incontrare un serpente o un lucertolone. Camminando
passammo per sopra il ponte dell’Agri ai Lagaroni.[8]
Ricordo appena di aver chiesto a mamma il
perché di questa compera in quanto avevo visto la cassa del grano[9]
quasi piena e nell’altro scomparto avevo notato un mezzo sacco di farina. Ella rispose
che il grano che tenevamo non era di buona qualità e il sacco di farina serviva
per confezionare una panella di grano buono esclusivamente per il Nonno Rosario
e noi avremmo potuto mangiare il pane ricavata dal grano mischiato con altre
qualità. Il nonno era il prediletto di mia zia Vincenza che viveva negli Stati
Uniti D’America ed aveva fatto fortuna riuscendo a gestire con i figli una
clinica sanitaria privata. Proprio per questa attenzione di mia madre verso il
proprio genitore profusa nei mesi che il nonno abitava con noi, stimolò la zia
Vincenza, a guerra finita, a spedire dei
grossi pacchi colmi di tante cose: caffè e tanti indumenti di buona stoffa forse usati per qualche volta
dalle sue figlie.
Ripigliando il racconto del viaggio, arrivammo
alle Pantane e mamma, anche per riposarsi, si sedette sopra il grandino in
pietra del Casino che ancora oggi esiste e mi mandò, come si dice in gergo: in
avan-scoperta, per scorgere se nei pressi della cabina telefonica[10]
posta proprio vicino alla nostra casa, se ci fosse qualche guardia. Allora
mamma, finalmente!, non vedendomi ritornare, decise di completare il viaggio e
portare quei venti chili di grano a casa.
Ho voluto raccontare questo fatto realmente
accaduto, pur tra il fumo dei ricordi del tempo ormai trascorso, però
confusamente è rimasto in alcune parti essenziali indelebile nella mia mente,
per essere di monito ai tanti giovani che oggi hanno tutto e molte volte
ricorrono a piaceri astratti solo per soddisfare la loro voglia di avere cose
le più impensabili e non sanno le privazioni, i sacrifici che tanti come me e i
nostri genitori hanno patito e fatto nella vita ormai trascorsa. Circa sessanta
anni fa si viveva nel rispetto e nell’amore reciproco tra i figli e i genitori.
Nel dopo guerra tutto incominciò a cambiare e qui mi fermo per altri racconti.
Remo Oriolo
[1] In quei tempi non tutti
avevano l’acqua corrente pubblica in casa e tra questi la mia casa natia perché ubicata quasi fuori del paese e perciò
non era servita dalla rete idrica pubblica. Allora si andava a prendere l’acqua
con il barile che per questo servizio giornaliero era addetto mia sorella
Vincenza (Ninina).
[2] Papà Rosario.
[3] I Murena alias Pataniedd’
erano i coloni dei Rautiis ed erano famosi per i tori da riproduzione.
[4] Successivamente quel Casino
fu utilizzato per rifugio da parte di
molte famiglie di Tramutola per tema di eventuali bombardamenti da parte degli
aerei americani perché nei castagneti di Tramutola e dove erano le baracche
dell’Agip per lo sfruttamento del petrolio e non solo, vi stazionavano alcune
truppe Tedesche. Successivamente, sia l’Arciprete che altre personalità
politiche di Tramutola convinsero quelle famiglie a ritornare nelle loro case.
[5] Del Giudice Gianni, vedi
Catasto onciario Tramutola.
[6] Erano delle umili casette
per lo più formate per custodire gli armenti e con qualche stanza adibita a
cucina con forno e il pagliericcio per dormirci sopra.
[7] Era un tratturo che portava
alle Barricelle, un’altra contrada di Marsicovetere,
[8] Si
trovava sotto alla località Lagaroni e poco lontano dalle Masserie dei
Pietrsanta, dei Rossi e dei Tavolari (alias Scacacchia).
[9] Era una grande cassa in
legno castagno, con un divisorio in mezzo; in un lato si riempiva di grano e
nel grano si conservavano le forme di cacio e le uova che si mantenvano
fresche, nell’altro scomparto si conservavano i sacchi della farina e gli
strumenti per fare il pane ed altro. Ricordo che mentre mia sorella Vincenza
(come poc’anzi ho riferito) era addetta all’approvvigionamento dell’acqua, mia
sorella Rosaria che aveva delle braccia muscolose e forti era addetta, insieme
a mamma alla confezione del pane. Era uno spettacolo vederle impastare nella
“fazzatora” la pasta per il pane, poi ridurlo in panelle , messo a lievitare e
poi con una pala di legno si metteva a cuocere nel forno. Questo si ripeteva
ogni quindici giorni.
[10] In quel tempo vi erano due
pali molto alti che sostenevano una piccola cabina in legno e dentro vi era il
telefono a manovella collegato alla centrale elettrica comunemente detta del
fiume Caolo, che aveva anche qualche funzione di pubblica utilità. Chi non
ricorda la voce altisonante colma di imprecazioni dell’addetto al servizio? Per
noi bambini era uno spasso ascoltare la conversazione gridata.
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